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lunedì 29 giugno 2015

Tutela reale: l’insussistenza del requisito dimensionale va provata dal datore di lavoro

Nella sentenza n.13166 del 25 giugno 2015, la Corte di Cassazione ha ribadito che, in caso di licenziamento illegittimo, grava sul datore di lavoro la prova dell'eventuale insussistenza del requisito dimensionale per l'applicabilità della tutela reintegratoria prevista dall'art.18 della Legge n.300/1970.

Corte di Cassazione – Sentenza n.13166 del 25 giugno 2015

Svolgimento del processo

La Corte di Appello di Catania, riformando la sentenza del Tribunale di Catania, non definitivamente pronunciando sulla domanda di P.G., proposta nei confronti A.S., avente ad oggetto l'impugnativa del licenziamento orale da quest'ultima intimatole e la condanna della stessa al pagamento di differenze retributive, dichiarava inefficacie il predetto licenziamento e per l'effetto condannava A.S. a reintegrare il P. nel posto di lavoro e corrispondergli tutte le retribuzioni maturate a decorrere dalla data del licenziamento e fino all'effettivo ripristino del rapporto di lavoro.

A base del decisumi,e per quello che interessa in questa sede, la Corte del merito, per quanto riguarda l'applicabilità della tutela reale di cui all'art. 18 della legge n. 300 del 1970, poneva il rilievo fondante secondo il quale il datore di lavoro non aveva provato il requisito dimensionale allegato.

Avverso questa sentenza A.S. ricorre in cassazione sulla base di due censure.

Parte intimata resiste con controricorso con il quale, in via preliminare, deduce il mancato rispetto del termine di cui all'art. 325 cpc.

Motivi della decisione

Preliminarmente va disattesa l'eccezione d'inammissibilità del ricorso sollevata dalla parte resistente sul rilievo che, a fronte sentenza di appello notificata in data 24 aprile 2012, il ricorso per cassazione era stato notificato una prima volta solo in data 25 giugno 2012 ed una seconda volta in data 29 giugno 2012.

Infatti è pur vero che il termine di sessanta giorni dalla notifica della sentenza di appello scadeva, come dedotto dalla parte intimata, il giorno 23 giugno 2012, ma è altrettanto vero che tale data è coincisa con il sabato.

Trova, quindi applicazione, la proroga dei termini processuali che scadono nella giornata di sabato, ex art. 155, quinto comma, cpc, la quale è applicabile non solo ai procedimenti instaurati successivamente al 1° marzo 2006, ma anche a quelli già pendenti a tale data, in forza dell‘art. 58, comma 3, della legge 18 giugno 2009, n. 69 ( per tutte V. Cass. 19 dicembre 2014 n. 27048)

Conseguentemente deve ritenersi tempestiva la notifica del ricorso per cassazione avvenuta il giorno 25 giugno 2012, primo utile in ragione della richiamata proroga.

Con il primo motivo del ricorso parte ricorrente, deducendo violazione e falsa applicazione degli artt. 2697 cc e 18 della legge n. 300 del 1970 nonché vizio di motivazione, sostiene che la Corte del merito non ha valutato la documentazione agli atti da cui si evince che la ditta A. non occupava più di quindici dipendenti e le dichiarazioni testimoniali dalle quali emerge che nella predetta ditta lavoravano l’A., i figli e un dipendente.

Con la seconda censura parte ricorrente, denunciando violazione e falsa applicazione degli artt. 1206, 1217 cc, 80 disp. att. cc e 2 della legge n. 604 del 1966 nonché vizio di motivazione, rileva che la Corte del merito una volta accertata l'inapplicabilità della tutela reale non avrebbe potuto ordinare la reintegrazione nel posto di lavoro.

I motivi, che in quanto strettamente connessi da punto di vista logicogiuridico vanno trattati unitariamente, sono infondati.

Occorre premettere che secondo giurisprudenza, oramai consolidata di questa Corte, in tema di riparto dell'onere probatorio in ordine ai presupposti di applicazione della tutela reale o obbligatoria al licenziamento di cui sia accertata l'invalidità, fatti costitutivi del diritto soggettivo del lavoratore a riprendere l’attività e, sul piano processuale, dell’azione di impugnazione del licenziamento sono esclusivamente l'esistenza del rapporto di lavoro subordinato e l'illegittimità dell’atto espulsivo, mentre le dimensioni dell’impresa, inferiori ai limiti stabiliti dall'art. 18 della legge n. 300 del 1970, costituiscono, insieme al giustificato motivo del licenziamento, fatti impeditivi del suddetto diritto soggettivo del lavoratore e devono, perciò, essere provati dal datore di lavoro. Con l'assolvimento di quest'onere probatorio il datore dimostra - ai sensi della disposizione generale di cui all'art. 1218 cc - che l'inadempimento degli obblighi derivatigli dal contratto di lavoro non è a lui imputabile e che, comunque, il diritto del lavoratore a riprendere il suo posto non sussiste, con conseguente necessità di ridurre il rimedio esercitato dal lavoratore al risarcimento pecuniario. L'individuazione di siffatto onere probatorio a carico del datore di lavoro persegue, inoltre, la finalità di non rendere troppo difficile l'esercizio del diritto del lavoratore, il quale, a differenza del datore di lavoro, è privo della "disponibilità" dei fatti idonei a provare il numero dei lavoratori occupati nell'impresa (Cass. S.U. 10 gennaio 2006 n. 141 e Cass.16 marzo 2009 n. 6344).

Tanto premesso va rilevata la correttezza della sentenza impugnata che ha ritenuto gravante sul datore di lavoro la prova dell'insussistenza del requisito dimensionale per l'applicabilità della tutela reintegratoria di cui all'art. 18 della legge n. 300 del 1970.

Quanto alle emergenze istruttorie di cui parte ricorrente denuncia l'erronea valutazione, va osservato che relativamente al richiamato documento, del quale si deduce la mancata considerazione, non essendo nel ricorso, in violazione del principio di autosufficienza, trascritto il testo è precluso a questa Corte qualsiasi sindacato di legittimità.

Analoghe considerazioni valgono in ordine alle dichiarazioni testimoniali di cui sono riportati solo alcuni stralci.

E' infatti, ius receptum nella giurisprudenza di questa Corte nel caso in cui, con il ricorso per Cassazione, venga dedotta l'incongruità o l'illogicità della sentenza impugnata per l'asserita mancata valutazione di risultanze processuali, è necessario, al fine di consentire al giudice di legittimità il controllo della decisività della risultanza non valutata (o insufficientemente valutata), che il ricorrente precisi, mediante integrale trascrizione della medesima nel ricorso, la risultanza che egli asserisce decisiva e non valutata o insufficientemente valutata, dato che solo tale specificazione consente alla Corte di Cassazione, alla quale è precluso l'esame diretto degli atti, di delibare la decisività della medesima, dovendosi escludere che la precisazione possa consistere in meri commenti, deduzioni o interpretazioni delle parti ( per tutte Cass. 19 maggio 2006 , n.11886 e Cass. 9 aprile 2013 n. 8569 ).

Il ricorso in conclusione va rigettato.

Le spese del giudizio di legittimità seguono la soccombenza.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna parte ricorrente la pagamento delle spese del giudizio di legittimità liquidate in E. 100,00 per esborsi ed E. 3.500,00 per compensi oltre accessori di legge.

 

Cassazione: la tenuità del danno non esclude la legittimità del licenziamento

Nella sentenza n.13168 del 25 giugno 2015, la Corte di Cassazione ha ribadito che, in caso di licenziamento per giusta causa, ai fini della valutazione della proporzionalità tra fatto addebitato e recesso, viene in considerazione non già l’assenza o la speciale tenuità del danno patrimoniale, ma la ripercussione sul rapporto di lavoro di una condotta suscettibile di porre in dubbio la futura correttezza dell'adempimento, in quanto sintomatica di un certo atteggiarsi del dipendente rispetto agli obblighi assunti.

Corte di Cassazione – Sentenza n.13168 del 25 giugno 2015

Svolgimento del processo

Con sentenza del 23.6.08 il Tribunale di Roma respingeva il ricorso proposto da G.R. nei confronti di A.I. s.p.a. (già R. s.p.a.), diretto alla declaratoria di illegittimità del licenziamento intimatole con lettera del 2.2.2004 a seguito di contestazione disciplinare del 15.2.04 con cui le venne mosso l'addebito di avere omesso di registrare alcuni ticket ed alcuni prodotti consumati presso la mensa e di essersi appropriata dei rispettivi importi il 12 e 18 dicembre 2003; veniva dunque anche respinta la domanda di reintegra ex art. 18 L. n. 300\70.

Avverso detta sentenza proponeva appello la C.

Resisteva la società.

Con sentenza depositata il 28 giugno 2011, la Corte d'appello di Roma rigettava il gravame.

Per la cassazione di tale sentenza propone ricorso la lavoratrice, affidato ad unica censura, poi illustrata con memoria.

Resiste la E.R. s.p.a. (succeduta alla A.I. s.p.a.) con controricorso.

Motivi della decisione

1.- La ricorrente denuncia la violazione e falsa applicazione degli artt. 2104, comma 2, e 2106 c.c., nonché dell'art. 1 della legge n. 604 del 1966 (art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c.), oltre ad omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo della controversia con riferimento alla lievità del fatto ed alla mancanza di recidiva (art. 360, comma 1, n. 5 c.p.c.).

Lamenta che la sentenza impugnata ricostruì i fatti erroneamente ritenendo legittima la massima sanzione espulsiva per avere, in tesi, la dipendente omesso di registrare un buono pasto di scarso valore economico, senza neppure accertare l'esistenza di dolo ovvero la semplice colpa, e senza verificare l'assenza di precedenti disciplinari ovvero la disciplina contrattuale collettiva in tema di sanzioni.

Il ricorso è infondato.

Risulta invero dalla sentenza impugnata che la Corte di merito ha adeguatamente accertato, attraverso l'esame delle deposizioni testimoniali: che la C., addetta alla cassa, acquisì, il 18 dicembre 2003, un buono pasto come pagamento di merce senza procedere ad alcuna registrazione, né a timbrare il titolo, né ad emettere lo scontrino fiscale (circostanza verificata dalla teste K.); che la stessa cosa era avvenuta anche in altra occasione, lo stesso giorno 18 dicembre 2003, nei confronti di altra addetta ai controlli (Vallano); la mancanza in cassa di valori eccedenti le risultanze contabili, deponenti per la mancata registrazione e contabilizzazione del buono pasto; che la registrazione dei buoni pasto e l'emissione del relativo scontrino erano obbligatori (teste F.).

Ha quindi ritenuto che il comportamento contestato ed accertato fosse, sia oggettivamente che soggettivamente, considerata la (implicitamente accertata) volontarietà del comportamento e le mansioni di cassiera della C., idoneo a ledere gravemente il vincolo fiduciario tra le parti, legittimando il licenziamento de quo.

L'attuale ricorrente non contesta affatto tale accertamento né chiarisce il contenuto della disciplina collettiva in materia di licenziamento disciplinare solo genericamente invocata (che peraltro, nel silenzio della ricorrente e della Corte di merito sul punto, non risulta essere stata ritualmente proposta in sede di gravame).

Risulta dunque infondata sia la censura circa l'erroneo accertamento dei fatti, sia quella inerente la valutazione dell'elemento intenzionale o meramente colpevole della condotta: a tale ultimo riguardo la sentenza impugnata ha evidenziato, sia pure implicitamente, la chiara volontà, in quanto reiterata, della C. di non contabilizzare e registrare il titolo di pagamento ricevuto.

Occorre poi rimarcare (ex aliis, Cass. n. 19684\14, Cass. n. 16864\06 e Cass. n. 16260\04) che la tenuità del danno non è da sola sufficiente ad escludere la lesione del vincolo fiduciario, valutate le mansioni di cassiera svolte dalla C. e la correttezza dei futuri adempimenti. Ed invero in caso di licenziamento per giusta causa, ai fini della valutazione della proporzionalità tra fatto addebitato e recesso, viene in considerazione non già l’assenza o la speciale tenuità del danno patrimoniale, ma la ripercussione sul rapporto di lavoro di una condotta suscettibile di porre in dubbio la futura correttezza dell'adempimento, in quanto sintomatica di un certo atteggiarsi del dipendente rispetto agli obblighi assunti.

Il ricorso si risolve, per il resto, in una inammissibile richiesta di valutare diversamente le risultanze istruttorie ed i fatti di causa, senza fornire peraltro alcun elemento a sostegno dell'assunto.

Né rileva Cass. n. 22129\11, citata in memoria dalla C., inerente un caso in cui questa S.C. escluse la presenza di qualsivoglia motivazione della sentenza di merito in ordine alla proporzionalità della sanzione, laddove nella specie la Corte capitolina ha, sia pur succintamente, evidenziato l'oggettiva gravità del comportamento in relazione alle mansioni di cassiera.

Il ricorso deve pertanto rigettarsi.

Le spese di lite seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità, che liquida in €. 100,00 per esborsi, €.3.000,00 per compensi, oltre spese generali ed accessori di legge.

Cassazione: dipendente Asl - Prestazione lavorativa presso centro privato convenzionato – Licenziamento illegittimo

Nella sentenza n.13158 del 25 giugno 2015, la Corte di Cassazione ha chiarito che l’attività svolta da un infermiere professionale alle dipendenze della Asl per conto di un centro privato non necessariamente integra gli estremi per il licenziamento.

Corte di Cassazione – Sentenza n.13158 del 25 giugno 2015

Svolgimento del processo

Il Tribunale di Venezia ha dichiarato illegittimo il licenziamento intimato dalla Azienda USLL n. X. a M.S. infermiere professionale alle dipendenze dell’Azienda, ritenendo che l’addebito contestatogli, consistente nell’avere il medesimo svolto la stessa attività presso un centro privato convenzionato con il Servizio sanitario nazionale, non fosse di gravità tale da giustificare la sanzione espulsiva, tenuto conto dello scarsa attività lavorativa svolta dai dipendente presso la struttura privata; che gli orari di lavoro non erano incompatibili con quelli osservati presso l'Azienda; che non vi era conflitto di interessi tra la struttura pubblica e quella privata, che il dipendente aveva agito in buona fede.

Di diverso avviso è stata la Corte di Appello di Venezia, la quale, a seguito di impugnazione dell’Agenda, ha ritenuto viceversa legittimo il licenziamento.

La Corte anzidetta ha osservato che, come definitivamente accertato dal giudice di primo grado, non essendo stata proposta al riguardo alcuna impugnazione, l'attività non consentita svolta dal dipendente presso il centro di analisi privato riguardava il periodo giugno - dicembre 2006; che l'impegno lavorativo era stato non superiore a 24 ore mensili; che l’art. 53 D. Lgs. n. 165/01 stabilisce il principio della unicità del rapporto di lavoro con il Servizio sanitario nazionale e la incompatibilità con ogni altro tipo di rapporto di lavoro dipendente, anche di natura convenzionata con il Servizio sanitario nazionale: che non era condivisibile la sentenza di primo grado che aveva considerato la violazione commessa dal M. di scarsa gravità; che era ravvisabile nella specie una situazione di conflitto di interessi potenziale; che lo svolgimento di attività lavorativa per almeno dieci o dodici ore al mese nel centro di analisi privato era idoneo ad incidere sul rapporto di lavoro con l’Azienda, tanto che gli orari del M., di solito effettuati nella fascia oraria dalle 7,30 alle 9,30, subivano frequenti modifiche; che il divieto di prestare attività lavorativa presso centri privati risultava dal contratto individuale di lavoro sottoscritto dal dipendente, oltre che dal contratto collettivo; che la condotta posta in essere dal dipendente costituiva violazione dell’elemento fiduciario che sta alla base del rapporto di lavoro; che conseguentemente il licenziamento era giustificato.

Per la cassazione di questa sentenza il dipendente propone ricorso per cassazione sulla base di sei motivi. L’Azienda resiste con controricorso, illustrato da memoria.

Motivi della decisione

1. Con il primo motivo, denunciando vizio di motivazione su un punto decisivo della controversia nonché violazione dell'art. 61 D.P.R. 10 gennaio 1957 n. 3, in relazione all'art. 53 D.Lgs n. 165 del 2001, il ricorrente, premesso che gli era stato anche contestato dall'Azienda di avere svolto, nel periodo successivo al dicembre 2006 e sino al maggio 2008, attività lavorativa a favore dello stessa struttura privata quale sodo di una cooperativa - attività questa, ad avviso dello stesso ricorrente, consentita, posto che il divieto di cumulo di impieghi non si applica nei casi di lavoro svolto da un socio di una cooperativa a norma dell‘art. 61 sopra menzionato - lamenta, se ben si coglie il senso della censura, che la Corte di merito, nel prendere in esame esclusivamente il periodo giugno - dicembre 2006, ritenendo che per il periodo successivo ogni questione fosse preclusa dal giudicato, non ha chiarito la questione circa la perdurante validità dell'art. 61 D.P.R. cit. a seguito dell'entrata in vigore dell’art. 53 del D. Lgs. n. 165 del 2001.

Tale chiarimento, aggiunge, avrebbe consentito al giudice d’appello di valutare compiutamente la vicenda per cui è controversia.

2. Con il secondo motivo, denunciando vizio di motivazione, il ricorrente deduce che la Corte di merito ha omesso di considerare, ai fini della gravità della condotta, che le sue presenze presso la struttura privata non erano superiori a 24 ore mensili, con un impegno giornaliero di non più di due ore. Aggiunge che, come era emerso dalla documentazione prodotta e dalla prova testimoniale, le modifiche dei turni di lavoro presso l’Azienda veneziana non solo non incidevano in alcun modo sulla prestazione lavorativa e sulla efficienza del reparto cui esso ricorrente era addetto, ma costituivano una prassi normale, risultando peraltro tutte autorizzate dall’Azienda.

3. Con il terzo motivo, denunciando vizio di motivazione e violazione dell’art. 7 della legge n. 300 del 1970, il ricorrente deduce che la contestazione disciplinare fa riferimento al lavoro svolto da esso ricorrente presso la struttura privata dal giugno 2006 al maggio 2008 "su incarico" della cooperativa. La Corte di merito ha viceversa ritenuto che nei primi sei mesi egli avesse svolto lavoro subordinato alle dipendente della struttura privata. E su tale erroneo presupposto la stessa Corte ha ritenuto legittimo il licenziamento, così fondando la decisione su un fatto mai contestato in sede disciplinare.

4. Con il quarto motivo, denunciando vizio di motivazione nonché violazione dell’art. 2106 cod. civ., il ricorrente sostiene che, diversamente da quanto sostenuto dal giudice di primo grado, la Corte di merito ha ritenuto che vi fosse un potenziale conflitto di interessi con la struttura pubblica. Ma, aggiunge, all’epoca dei fatti la struttura privata in questione era convenzionata con il Servizio sanitario nazionale, sicché l’attività svolta da esso ricorrente presso tale struttura - consistente nel prelievo di sangue ai pazienti per le relative analisi - altro non era se non una attività integrativa di quella svolta dalla struttura pubblica, attività che questa non riusciva ad assicurare.

5. Con il quinto motivo, denunciando vizio di motivazione e violazione del CCNL dei dipendenti del Servizio sanitario nazionale, art. 13, comma 8, lettera d), il ricorrente lamenta che la Corte di merito non ha tenuto conto delle deroghe poste alla esclusività del rapporto di pubblico impiego dall’art. 61 D.P.R. n. 3 del 1957, richiamato dall’art. 53 del D. Lgs. n. 165 del 2001, con riferimento all’attività dei soci delle cooperative. Aggiunge che il predetto CCNL non contiene alcun divieto di prestare attività lavorativa presso centri privati, ma solo un generico riferimento all’art. 2119 cod. civ., e che il Regolamento vigente presso la ULSS veneziana in tema di incompatibilità adopera termini vaghi, ingenerando confusioni ed incertezze. Da tutto ciò non può non ricavarsi la buona fede di esso ricorrente, il quale in definitiva ha svolto un limitatissimo carico di lavoro presso una struttura privata per conto di una cooperativa sociale.

6. Con il sesto motivo, denunciando vizio di motivazione, il ricorrente lamenta che la Corte territoriale, nel ritenere giustificato il licenziamento, non ha adeguatamente valutato i criteri generali posti dal CCNL sopra citato, art. 13, ai fini del rispetto della gradualità e proporzionalità delle sanzioni, ed in particolare lo stato di servizio di esso ricorrente, quasi trentennale e privo di qualsivoglia censura disciplinare; la situazione familiare del medesimo; l’elemento soggettivo, l’impegno di lavoro limitato a sole due ore giornaliere per dodici giorni al mese; la mancanza di danno per l’azienda e per gli utenti; la posizione di lavoro del ricorrente e la mancanza di responsabilità nello svolgimento delle mansioni in questione; la totale assenza di disservizio nell’organizzazione aziendale.

7. Osserva innanzitutto la Corte che, come risulta dalla sentenza impugnata, devono ritenersi pacifici perché non oggetto di impugnazione, i seguenti fatti accertati dal giudice di primo grado:

- lo svolgimento, da parte del ricorrente, di attività di lavoro subordinato alle dipendenze di una struttura privata (laboratorio di analisi R.) dal giugno al dicembre 2006;

- l’insussistenza di un rapporto di lavoro subordinato, nel periodo successivo, nella stessa struttura, dal momento che le prestazioni lavorative sono state rese dal ricorrente nell’ambito di un servizio di appalto stipulato con società cooperative di cui il lavoratore era socio;

- l’entità dell'attività lavorativa svolta dal ricorrente presso detta struttura, non superiore a 24 ore mensili.

Alla stregua di tali elementi, sono inammissibili, in quanto coperti dal giudicato:

- il primo motivo, con il quale si lamenta che la sentenza impugnata non avrebbe dato risposta al quesito se fosse o meno lecita l'attività prestata dal ricorrente quale socio di una cooperativa, avendo viceversa la Corte considerato definitivamente accertata la liceità di tale attività, tanto che nel prosieguo si é occupata solo del primo periodo (giugno - dicembre 2006);

- il quinto motivo, con il quale si lamenta che la Corte di merito non avrebbe tenuto conto delle deroghe poste alla esclusività del rapporto di pubblico impiego dall’art. 61 D.P.R. n. 3 del 1957, richiamato dall’art. 53 del D. Lgs, n. 165 del 2001, quando invece la Corte di merito, come detto in precedenza, ha considerato, ai fini della decisione, solo il lavoro svolto dal ricorrente dal giugno al dicembre 2006, non tenendo conto di quello svolto nel periodo successivo quale socio della cooperativa.

8. Deve altresì ritenersi inammissibile la censura relativa al terzo motivo, non risultando dal ricorso di primo grado e dalla memoria difensiva depositata nel giudizio di appello, trascritti nel ricorso, che il ricorrente abbia sollevato nei precedenti giudizi la questione relativa al licenziamento per un fatto diverso da quello contestato.

9. Deve ancora rilevarsi che il divieto di cumulo di impieghi è previsto, con riguardo al caso in esame, dal D. Lgs. n. 165 del 2001, art. 53, primo comma, il quale dispone che per i dipendenti pubblici restano ferme, tra l’altro, le disposizioni di cui all’art. 4, comma 7, della legge n. 412 del 1991, secondo cui con il Servizio sanitario nazionale può intercorrere un unico rapporto di lavoro. Tale rapporto è incompatibile con ogni altro rapporto di lavoro dipendente, pubblico o privato, e con altri rapporti anche di natura convenzionale con il Servizio sanitario nazionale.

10. Tutto ciò premesso, ritiene il Collegio fondati gli altri tre motivi (secondo, quarto e sesto), i quali vanno trattati congiuntamente in ragione della loro connessione.

E’ principio consolidato di questa Corte che in tema di licenziamento per giusta causa, ai fini della proporzionalità tra fatto addebitato e recesso, viene in considerazione ogni comportamento che, per la sua gravità, sia suscettibile di scuotere la fiducia del datore di lavoro e di far ritenere che la continuazione del rapporto si risolva in un pregiudizio per gli scopi aziendali, dovendosi ritenere determinante, a tal fine, l’influenza che sul rapporto di lavoro sia in grado di esercitare il comportamento del lavoratore che, per le sue concrete modalità e per il contesto di riferimento, appaia suscettibile di porre in dubbio la futura correttezza dell'adempimento e denoti una scarsa inclinazione ad attuare diligentemente gli obblighi assunti, conformando il proprio comportamento ai canoni di buona fede e correttezza (cfr., fra le altre, Cass. 22 giugno 2009 n. 14586; Cass. 26 luglio 2010 n. 17514; Cass. 13 febbraio 2012 n. 2013).

La gravità dell’inadempimento deve essere valutata nel rispetto della regola generale della "non scarsa importanza" di cui all’art. 1455 c.c., sicché l’irrogazione della massima sanzione disciplinare risulta giustificata solamente in presenza di un notevole inadempimento degli obblighi contrattuali, tale cioè da non consentire la prosecuzione del rapporto di lavoro per essersi irrimediabilmente incrinato il rapporto di fiducia, da valutarsi in concreto in considerazione della realtà aziendale e delle mansioni svolte (Cass. 10 dicembre 2007 n. 25743).

Non è sufficiente, per ritenere giustificato un licenziamento, che una disposizione di legge sia stata violata dal lavoratore o che un obbligo contrattuale non sia stato dal medesimo adempiuto, occorrendo pur sempre che tali violazioni siano di una certa rilevanza e presentino i caratteri in precedenza enunciati.

A tal riguardo, va assegnato rilievo all'intensità dell’elemento intenzionale, al grado di affidamento richiesto dalle mansioni, alle precedenti modalità di attuazione del rapporto, alla durata dello stesso, alla natura e alla tipologia del rapporto medesimo.

Nella specie la Corte territoriale ha ritenuto di non condividere il giudizio di scarsa gravità espresso dal giudice di primo grado, sulla base delle seguenti considerazioni;

- lo svolgimento di attività presso la struttura privata comportava una situazione di conflitto di interessi potenziale:

- tale attività veniva prestata per "un tempo apprezzabile", e cioè "per almeno dieci o dodici mattine al mese", e peraltro dalle ore 7,30 alle ore 9,30, in cui il dipendente era tenuto ad assicurare la propria presenza nella struttura pubblica, con la conseguenza che il suo orario di lavoro subiva frequenti modifiche;

- il divieto di prestare attività presso centri privati risultava dal contratto individuale di lavoro, da fonti contrattuali nonché da fonti normative;

- la condotta del ricorrente, tenuto conto della sua durata, del vincolo di esclusività e del venir meno della situazione di incompatibilità solo a seguito dell’accertamento compiuto dalla Direzione provinciale del lavoro, costituiva una violazione dell’elemento fiduciario che sta alla base del rapporto di lavoro.

Non ritiene questo Collegio che dette argomentazioni siano idonee a sorreggere la decisione, non apparendo la sentenza impugnata adeguatamente motivata.

Ed infatti la Corte di merito, nel ritenere che nella condotta del dipendente sia ravvisabile un conflitto di interessi e che tale condotta comportava "frequenti modifiche" nell'orano di lavoro, con conseguenti disservizi, non considera che i cambi di turno, come risulta dalle dichiarazioni dei testi riportate in ricorso e dalla nota del Direttore del Dipartimento di anestesia e rianimazione, allegata al ricorso, venivano effettuati "praticamente" da "tutti i colleghi" del ricorrente, previo avviso all'infermiere coordinatore o al suo sostituto. Tanto meno, la sentenza impugnata spiega il tipo di disservizi che il cambio di orario comportava per la struttura pubblica, una volta che tale cambio veniva comunicato in anticipo.

Quanto alla gravità della condotta, la Corte territoriale, nel ritenere "apprezzabile il tempo dedicato" alla struttura privata, non considera che "dieci o dodici mattine" al mese "nella fascia oraria dalle 7,30 alle 9,30", equivalgono complessivamente a 20 - 24 ore mensili.

In ordine, poi, all’elemento soggettivo, se è vero che la esclusività del rapporto era prevista dal contratto individuale e da fonti normative, sussistevano deroghe a tale divieto, tanto che per il periodo gennaio 1997 - maggio 1998, l’attività prestata dal ricorrente presso il centro privato) quale socio di una cooperativa, è stata ritenuta legittima, con sentenza del primo giudice passata sul punto in giudicato.

Ancora, la Corte di merito non ha considerato che la valutazione della Amministrazione circa la gravità della condotta tenuta dal ricorrente è stata effettuata con riguardo ad un periodo di circa due anni (giugno 2006 - maggio 2008, ben più ampio di quello di sette mesi considerato dalla Corte di merito.

Infine, alcun riferimento la Corte di merito ha fatto alle "responsabilità connesse alla posizione di lavoro occupata dal dipendente", al "grado di danno o di pericolo causato all'azienda o ente, agli utenti o a terzi", alla "sussistenza di circostanze aggravanti o attenuanti, con particolare riguardo al comportamento del lavoratore" ed ai precedenti disciplinari, criteri questi previsti dall’art. 13 CCNL dei dipendenti del Servizio sanitario nazionale del 19 aprile 2004, come modificato dal CCNL del 10 aprile 2008, ai fini del rispetto del principio di gradualità e proporzionalità delle sanzioni, in relazione alla gravità della mancanza.

Il ricorso, nei termini sopra indicati, deve pertanto essere accolto, con la conseguente cassazione della impugnata sentenza e con rinvio al giudice indicato in dispositivo, il quale dovrà riesaminare la causa in base ai principi e ai criteri sopra enunciati, provvedendo anche sulle spese del presente giudizio.

P.Q.M.

Accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e rinvia, anche per le spese, alla Corte di Appello di Milano.

 

Unioncamere - Imprese: fra gennaio e marzo +16.000 quelle di 'under 35'

Unioncamere, Comunicato Stampa del  1° giugno 2015

Il 36% delle nuove nate è al Sud, il 22% parla straniero, 2 su 3 sono già su Internet

A Crotone il tasso di imprenditorialità giovanile più alto (15,3%), a Forlì-Cesena il più basso (6,7%)

L’aria di ripresa sembra sostenere la voglia d’impresa dei giovani. Dall’inizio dell’anno, un piccolo esercito di italiani ‘under 35’ ha sciolto le riserve e - davanti ad un mercato del lavoro che lentamente ha ripreso a muoversi - ha scelto, come si diceva una volta,  di mettersi ‘in proprio’. Delle oltre 115mila imprese nate tra gennaio e marzo, infatti, oltre 35mila (il 31%) hanno alla guida uno o più giovani con meno di 35 anni di età . La culla di questa vitalità imprenditoriale continua ad essere il Mezzogiorno, dove ha sede il 36% delle imprese giovanili nate lo scorso trimestre, con poco più di 13mila nuove iniziative.

Quasi 2 aziende su 3 avviate da un under 35 hanno puntato subito su internet, il 45% è già pronto a vendere online. I settori che attirano di più i giovani imprenditori sono quelli del commercio (dove opera circa il 20% delle neo-imprese ‘under 35’), delle costruzioni (9,5%) e dei servizi di ristorazione (5,1%). Nella grande maggioranza dei casi (il 76%) si tratta di imprese individuali, la forma più semplice - ma anche la più fragile - per operare sul mercato; il 17% ha scelto invece la forma della società di capitale, più idonea a sostenere progetti di sviluppo anche ambiziosi.

La foto sull’imprenditoria giovanile è stata presentata da Unioncamere sulla base di Movimprese, la rilevazione trimestrale condotta da InfoCamere sulla base del Registro delle Imprese delle Camere di Commercio. Tutti i dati sono disponibili all’indirizzo www.infocamere.it.

“I giovani italiani si stanno rimboccando le maniche per cogliere le opportunità di questo momento e molti di loro scelgono di farlo attraverso l’impresa” ha detto il Presidente di Unioncamere, Ferruccio Dardanello. “Spesso sono giovani che hanno deciso di puntare su un’idea innovativa e sulle proprie competenze per realizzarla, anche sfruttando le nuove tecnologie della rete. Per sostenere questi neo-imprenditori dobbiamo dare loro un paese più moderno e quindi più digitalizzato, anche per attrarre intelligenze e investimenti dall’estero, più meritocratico e capace di valorizzare i talenti delle persone. Il vero successo delle riforme che si stanno disegnando si misurerà su quanto riusciremo a fare su questi fronti, a partire da quello della pubblica amministrazione che deve diventare realmente ‘amica’ delle imprese.”

Dai Consulenti del Lavoro un Vademecum per chi ha perso il lavoro a 50 anni

Fondazione Studi Consulenti del Lavoro, Comunicato Stampa del 26 giugno 2015

Palermo, 26 giugno 2015 – La Fondazione Studi dei Consulenti del Lavoro presenta nel corso del Festival del Lavoro un’utile guida, un focus sui principali strumenti presenti nel nostro mercato del lavoro, utili per la ricollocazione di coloro che sono alla ricerca di un lavoro ed hanno più di 50 anni. Per tali soggetti, la probabilità di ricollocarsi, osservano i Consulenti del Lavoro, è certamente ridotta in un mercato del lavoro che non riesce a valorizzare sufficientemente le competenze acquisite nel corso dell’attività lavorativa e, dunque, ad incrociare adeguatamente domanda ed offerta di lavoro. Diventa, dunque, importante valorizzare i vari strumenti di sostegno a favore di tali soggetti, che consentono di fruire di incentivi sia economici, mediante la possibilità di poter godere di un costo del lavoro più vantaggioso rispetto a quello ordinario, sia di poter contare sull’utilizzo di specifici istituti contrattuali o normativi.

Focus particolare sulle novità contenute nel decreto legislativo 81/2015 attuativo del Jobs act in vigore dal 25 giugno sui contratti di lavoro che agevola la stipula di forme contrattuali flessibili.

Inoltre, vengono approfondite le agevolazioni nazionali e comunitarie a favore degli ultra cinquantenni. Il vademecum contiene anche suggerimenti per la redazione del curriculum vitae.

Leggi il Vademecum:

Unioncamere - Le imprese culturali e creative producono 78,6 miliardi di valore aggiunto e ne muovono 227, il 15,6% della ricchezza prodotta

Unioncamere, Comunicato Stampa dell’11 giugno 2015

Le imprese delle filiere culturali e creative producono 78,6 miliardi di valore aggiunto e ‘attivano’ altri settori dell’economia arrivando a muovere complessivamente il 15,6% del valore aggiunto nazionale, equivalente a 227 miliardi di euro. Tanto vale nel 2014 il sistema produttivo culturale e creativo, un dato comprensivo del valore prodotto dalle filiere culturali e creative, ma anche da quella parte dell’economia nazionale che viene attivata dalla cultura, a cominciare dal turismo.

È quanto emerge dal Rapporto 2015 “Io sono cultura – l’Italia della qualità e della bellezza sfida la crisi” elaborato da Fondazione Symbola e Unioncamere con la collaborazione e il sostegno dell’Assessorato alla Cultura della Regione Marche e di FriulAdria, presentato oggi a Roma alla presenza del ministro Franceschini dal Segretario Generale di Unioncamere Gagliardi, dal Presidente di Symbola Realacci e dal presidente di Unioncamere Dardanello.

L’unico studio in Italia che annualmente quantifica il peso della cultura e della creatività nell’economia nazionale. Con risultati eloquenti: le filiere culturali e creative si confermano un pilastro del made in Italy, un sostegno importante alla nostra competitività o, per dirla in gergo calcistico, l’uomo in più messo in campo dalla squadra Italia per competere e vincere. Tanto che nel periodo 2012/2014, quindi in piena crisi, le imprese che hanno investito in creatività hanno visto crescere il proprio fatturato del 3,2%, mentre tra le non investitrici il fatturato è sceso dello 0,9%. E sempre le imprese che hanno investito in creatività sono state premiate con incremento dell’export del 4,3%, al contrario chi non ha puntato su questo asset ha visto le proprie esportazioni crescere di un ben più magro 0,6%.

Unioncamere: 83mila posti di lavoro in più entro giugno nelle imprese private

Unioncamere, Comunicato Stampa del 29 giugno 2015

Non si vedeva da 36 mesi un saldo positivo tanto consistente nelle previsioni di assunzione del settore privato: sono 83mila i posti di lavoro aggiuntivi che le imprese dell’industria e dei servizi intendono creare tra aprile e giugno 2015, 82mila dei quali destinati a lavoratori alle dipendenze. Come risulta dai dati del Sistema informativo Excelsior di Unioncamere e Ministero del Lavoro relativi al II trimestre 2015, l’effetto Job Act si fa sentire nei programmi occupazionali delle imprese, corroborato però dal vento di ripresa che sta attraversando il sistema produttivo: le assunzioni previste a tempo indeterminato (68.400) toccano il massimo storico dal gennaio 2012, andando a rappresentare il 24% delle entrate totali, mentre i saldi positivi attesi entro giugno si estendono un po’ a tutti i settori pur concentrandosi sul turismo, per l’approssimarsi della stagione estiva.

Buone notizie anche a livello territoriale: pur perdurando nel Nord Ovest l’impulso positivo di Expo già registrato nel precedente trimestre (in queste regioni i nuovi posti di lavoro che le imprese intendono creare entro giugno saranno 13mila), è nelle altre ripartizioni territoriali che i saldi positivi subiscono una sensibile impennata, superando le 25mila unità nel caso del Nord Est e del Mezzogiorno e sfiorando le 19mila nel caso del Centro.

 

Cassazione - Licenziamento per giusta causa: accertamento della gravità della condotta del lavoratore

Nella sentenza n.13162 del 25 giugno 2015, la Corte di Cassazione ha ribadito che, nell’ambito di un licenziamento disciplinare, ove la condotta oggetto di contestazione risulti qualificata dalla contrattazione collettiva come configurante  giusta causa o giustificato motivo soggettivo  di recesso, il giudice deve, tuttavia, accertarne l’effettiva gravità in relazione al caso concreto.

Corte di Cassazione, Sentenza n.13162 del 25 giugno 2015

Svolgimento del processo

La Corte d’appello di Milano, con la sentenza indicata in epigrafe, ha confermato la decisione di primo grado, che aveva respinto la domanda proposta nei confronti di Poste Italiane S.p.A. dalla dipendente G.M., volta alla declaratoria di illegittimità del licenziamento per giusta causa disposto nei suoi conti dal datore di lavoro.

Alla predetta dipendente era stato contestato di essersi impossessata di una assicurata contenente sei blocchetti di buoni mensa dell’importo complessivo di E 393,00, da destinare ai dipendenti dell’ufficio.

La Corte di merito, nel respingere il gravame della lavoratrice, ha osservato che la contestazione era specifica; che la dipendente aveva ammesso di essersi appropriata dei blocchetti; che la sanzione espulsiva era proporzionata all’entità del fatto, trattandosi di un illecito penale collegato con l’ambiente di lavoro, ed essendo previsto dal contratto collettivo il licenziamento nell’ipotesi, come nella specie, di sottrazione di beni di pertinenza della società o comunque ad essa affidati; che la confessione della G. e l’assenza di precedenti sanzioni disciplinari non potevano costituire attenuanti idonee ad escludere la legittimità del recesso, avendo la condotta della lavoratrice leso il vincolo di fiducia che sta alla base del rapporto di lavoro.

 Contro questa sentenza propone ricorso per cassazione la lavoratrice sulla base di tre motivi, illustrati da memoria ex art. 378 cod. proc. civ. Resiste con controricorso Poste.

Motivi della decisione

1. Con il primo motivo la ricorrente, denunciando violazione degli artt. 2104, 2105 cod. civ., degli artt. 54 e seguenti del contratto collettivo dei dipendenti delle Poste nonché contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia, deduce che nella lettera di contestazione disciplinare non è precisata la norma contrattuale violata né è indicato chiaramente l’addebito contestatole. E’ stato infatti richiamato l’art. 54 di detto contratto, che contiene una serie di ipotesi disciplinari, ciò che non ha consentito ad essa ricorrente di difendersi adeguatamente. La sentenza è peraltro contraddittoria per avere affermato, per un verso, che la condotta sanzionata con il licenziamento era quella prevista dal contratto collettivo e, per altro verso, che il recesso trovava titolo nell’illecito penale, in ordine al quale peraltro non risultava promosso alcun procedimento penale.

 2. Con il secondo motivo, denunciando violazione di legge e di contratto collettivo nonché vizio di motivazione, la ricorrente sostiene che nella specie era applicabile il sesto comma dell’art. 56 del predetto contratto – che prevede la sanzione disciplinare della sospensione dal servizio con privazione della retribuzione fino a dieci giorni – e non già il quarto comma dello stesso articolo, che sanziona le condotte ivi indicate con il licenziamento.

3. Con il terzo motivo la ricorrente, denunciando le stesse violazioni di cui al precedente motivo, rileva che la Corte territoriale non ha applicato correttamente il principio di proporzionalità della sanzione disciplinare rispetto alla gravità del fatto, quale previsto dall’art. 55 del contratto collettivo.

In particolare non ha tenuto conto della lieve entità del fatto, dell’elemento soggettivo, del comportamento complessivo di essa ricorrente e dell’assenza di precedenti disciplinari.

4. Il primo motivo non è fondato.

La lettera di contestazione disciplinare, riportata in ricorso, indica chiaramente l’addebito mosso alla ricorrente, e cioè di essersi impossessata di una assicurata contenente sei blocchetti di buoni mensa per un valore complessivo di E 33,00, pervenuti all’ufficio postale dove la medesima svolgeva attività lavorativa – una matrice dei quali venne poi rinvenuta nella sua abitazione – e di avere, in un primo momento, affermato di essere stata costretta a sottrarre i predetti buoni mensa dietro minaccia di alcuni cittadini rumeni, per poi ammettere presso la caserma dei Carabinieri dove si era recata per sporgere denuncia la sua esclusiva responsabilità.

A nulla rileva che nella lettera di contestazione sia stato richiamato l’art. 54 del contratto collettivo, che prevede diverse ipotesi di illeciti disciplinari, risultando ben individuato il fatto addebitato alla lavoratrice, che peraltro la medesima aveva ammesso di aver commesso.

5. Anche il secondo motivo è infondato.

Correttamente infatti la Corte di merito ha ritenuto sussistente nella specie l’ipotesi di cui all’ari. 56, sesto comma, del contratto collettivo, che prevede la sanzione del licenziamento nel caso di «sottrazione» di beni o di somme di spettanza o di pertinenza della società o “ad essa affidati”, e non già quella, meno grave, prevista dal quarto comma dello stesso articolo, costituita dal mero “compimento di atti” dai quali sia derivato un vantaggio per il dipendente e/o un danno per la società.

3. Infondato è infine il terzo motivo.

In materia di licenziamento per ragioni disciplinari, anche se la disciplina collettiva prevede un determinato comportamento come giusta causa o giustificato motivo soggettivo di recesso, il giudice investito dell’impugnativa della legittimità del licenziamento deve comunque verificare l’effettiva gravità della condotta addebitata al lavoratore (cfr. Cass. n. 1095/07; Cass. n. 5280/13; Cass. 16095/13).

La giusta causa di licenziamento è infatti nozione legale, onde il giudice non può essere vincolato dalle previsioni del contratto collettivo, anche quando si riscontri la astratta corrispondenza del comportamento del lavoratore alla fattispecie tipizzata contrattualmente (cfr. Cass. n. 4060/11; Cass. n. 5280/13 cit.).

In altri termini, la valutazione in ordine alla legittimità del licenziamento disciplinare di un lavoratore deve essere in ogni caso effettuata attraverso un accertamento in concreto della reale entità e gravità del comportamento addebitato al dipendente nonché del rapporto di proporzionalità tra sanzione e infrazione, tenendo anche conto del profilo soggettivo e della regola generale della non scarsa importanza dettata dall’art. 1455 cod. civ.

Nella specie, la Corte di merito, pur dando atto che la condotta della dipendente, dopo l’avvenuta appropriazione dei blocchetti in questione, era stata leale e collaborativa, ha ritenuto che essa, nonostante l’assenza di precedenti disciplinari, fosse stata tale da far venire meno irrimediabilmente il rapporto di fiducia che sta alla base del rapporto di lavoro, trattandosi di una condotta grave, commessa nell’esercizio delle funzioni, costituente illecito penale e contemplata peraltro dal contratto collettivo fra le ipotesi di licenziamento per giusta causa.

Tali affermazioni vanno condivise.

Ciò che maggiormente rileva nella fattispecie in esame, ai fini della proporzionalità fra fatto addebitato e recesso, non è tanto il valore dei beni oggetto della appropriazione, quanto la circostanza che la condotta posta in essere dalla dipendente è suscettibile di porre in dubbio la futura correttezza dell’adempimento dei propri obblighi, in quanto sintomatica di un certo atteggiarsi del prestatore nello svolgimento dell’attività lavorativa, nonchè di far venir meno il grado di affidamento richiesto dalle mansioni esercitate dal prestatore medesimo.

Correttamente quindi la sentenza impugnata ha ritenuto che la sanzione espulsiva fosse proporzionata alla entità del fatto commesso, dovendo il datore di lavoro poter contare su dipendenti onesti e corretti.

Il ricorso deve pertanto essere respinto, con la conseguente condanna della ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio, liquidate come in dispositivo.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio, che liquida in e 100,00 per esborsi ed e 3.000,00 per compensi professionali, oltre accessori di legge.

 

Buoni per l’acquisto di beni e servizi in favore delle famiglie numerose a basso reddito

Nei giorni scorsi, il Ministro del Lavoro, Giuliano Poletti, ha preannunciato l’imminente definizione della norma che consentirà alle famiglie numerose, in cui siano presenti almeno quattro figli minorenni, e con un reddito annuale inferiore ad 8.500,00 euro, di usufruire di buoni per l'acquisto di beni e servizi.

Si tratta di un’operazione di welfare estremamente rilevante, atteso che, stando ai dati emersi dal monitoraggio delle dichiarazioni Isee presentate nei primi tre mesi dall’introduzione del nuovo modello, sono circa  72.000 le famiglie potenzialmente beneficiarie di questo nuovo strumento di sostegno del reddito.

Valerio Pollastrini

Cassazione - Infortuni sul lavoro: responsabilità penale del preposto alla sicurezza

Nella sentenza n.26994 del 25 giugno 2015, la Corte di Cassazione ha precisato che, in relazione all’infortunio subito dal dipendente che abbia omesso di utilizzare gli appositi dispositivi di protezione, la responsabilità penale dell’evento deve essere attribuita a preposto alla sicurezza.

In sostanza, nella pronuncia in commento gli ermellini, nell’assolvere il datore di lavoro, hanno ribadito che il dovere di vigilare sul corretto utilizzo dei dispositivi di sicurezza ricade sul soggetto preposto.

Valerio Pollastrini

Al via gli accertamenti ispettivi presso le aziende che beneficiano dello sgravio triennale per i nuovi assunti

Nei giorni scorsi il Ministero del Lavoro ha definito la programmazione di un’intensa attività ispettiva nei confronti delle aziende che abbiano avuto accesso allo sgravio triennale per le nuove assunzioni con contratto a tempo indeterminato.

Nello specifico, le verifiche saranno finalizzate all’identificazione dei casi di pre-costituzione delle condizioni richieste dalla legge per beneficiare dell’esonero contributivo introdotto dalla Legge di Stabilità 2015.

Valerio Pollastrini

Consiglio Nazionale Dottori Commercialisti - Principi contabili: principi di revisione e sistemi di controlli

Lo scorso 25 giugno, il Consiglio Nazionale dei Dottori Commercialisti ha pubblicato sul proprio portale la guida operativa “Attività di vigilanza del collegio sindacale delle società non quotate nell'ambito dei controlli sull'assetto organizzativo”, elaborata dal settore Studi e Ricerche.

Consulta la Guida Operativa:

Ministero del Lavoro - Comunicazione telematica della prestazione di lavoro accessorio

Ministero del Lavoro - Nota n.3337 del 25 giugno 2015

Decreto legislativo 24 giugno 2015, n, 81 Recante Disciplina organica dei contratti di lavoro e la revisione della normativa in tema di mansioni, a norma dell'articolo 1, comma 7, della legge 10 dicembre 2014, n. 183. Comunicazione telematica della prestazione di lavoro accessorio

In data 24 giugno 2015 è stato pubblicato nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana n. 144 - Supplemento Ordinario n. 34 - il decreto legislativo n. 81, attuativo della legge 10 dicembre 2014, n. 183 (Legge Delega sul Jobs Act) recante la disciplina organica dei contratti di lavoro e la revisione della normativa in tema di mansioni.

In particolare, l'articolo 49, comma 3, rispondendo all'intenzione del legislatore della legge delega di razionalizzare tutte le comunicazioni in materia di rapporti di lavoro, prevede che la comunicazione di inizio della prestazione di lavoro accessorio vada comunicata alla Direzione territoriale del lavoro competente con modalità esclusivamente telematiche.

Ai fine dei necessari approfondimenti in ordine alta attuazione dell'obbligo di legge e nelle more della attivazione delle relative procedure telematiche, sì informa che la comunicazione in questione sarà effettuata agli Istituti previdenziali secondo le attuali procedure.

Voucher: un utile strumento per impiegare gli studenti durante le vacanze estive

L’entrata in vigore del decreto attuativo del Jobs Act di riordino delle tipologie contrattuali apre nuovi scenari nell’ambito dei rapporti di lavoro stagionale.

In particolare, per i ragazzi che, nel corso delle vacanze estive, fossero intenzionati a trovare un lavoro i c.d. voucher potrebbero costituire un utile strumento.

La nuova normativa sul lavoro accessorio, infatti, consente alle aziende di impiegare gli studenti  tramite il sistema dei buoni lavoro nel periodo intercorrente tra il 1° giugno ed il 30 settembre.

Tuttavia, la legittimità del contratto di lavoro accessorio è subordinato al rispetto dei seguenti requisiti reddituali:

-         tetto massimo retributivo di 3mila euro annui presso un solo datore di lavoro;
-         tetto massimo retributivo di 5mila euro annui presso più datori di lavoro.

Sul piano dei compensi,  si segnala, inoltre, che  il valore economico dei voucher è prefissato in tagli fissi da 10, 20 o 50 euro, comprensivi dei contributi Inps e dell’assicurazione Inail. Tuttavia, la determinazione della retribuzione del lavoratore accessorio dovrà essere quantificata per mezzo delle fasce retributive fissate dal contratto collettivo nazionale applicato dall’azienda.

Valerio Pollastrini

Anac - Modifiche al regolamento sul componimento delle controversie insorte durante le gare di appalti pubblici

Autorità Nazionale Anticorruzione – Delibera del 27 maggio 2015 (Provvedimento pubblicato nella G.U. 27 giugno 2015, n. 147)

Modifiche al regolamento sull'esercizio della funzione di componimento delle controversie di cui all'articolo 6, comma 7, lettera n) del decreto legislativo 12 aprile 2006, n. 163

Delibera:

Di approvare le seguenti modifiche al Regolamento sull'esercizio della funzione di componimento delle controversie di cui all'art. 6, comma 7, lettera n) del decreto legislativo 12 aprile 2006, n. 163:

All'art. 3, l'elenco di cui al comma 1 è contrassegnato con lettere dalla a) alla h), ivi comprese le ulteriori ipotesi che sono aggiunte, come segue:

«d. manifestamente mancanti di interesse concreto al conseguimento del parere;

e. interferenti con esposti di vigilanza e procedimenti sanzionatori in corso di istruttoria presso l'Autorità;

f. di contenuto generico o contenenti un mero rinvio ad allegata documentazione e/o corrispondenza intercorsa tra le parti;

g. volte ad un controllo generalizzato dei procedimenti di gara delle amministrazioni aggiudicatrici;

h. relative a gare di importo inferiore alla soglia di € 40.000».

All'art. 3, comma 2, prima delle parole: «le istanze devono essere redatte», sono inserite le parole: «Fino alla pubblicazione del formulario on line sul sito dell'Autorità».

All'art. 3, comma 4, le parole: «sopravvenienza di una pronuncia giurisdizionale di primo grado sulla medesima questione oggetto di parere» sono sostituite dalle seguenti parole: «esistenza o sopravvenienza di un ricorso giurisdizionale avente contenuto analogo».

All'art. 3, è soppresso il comma 7.

Dopo l'art. 5, è inserito il seguente:

«Art. 5-bis (Archiviazioni delle istanze). L'Ufficio propone al Presidente, per l'approvazione del Consiglio, le archiviazioni delle istanze per inammissibilità e/o improcedibilità.

L'Ufficio propone altresì al Presidente, per l'approvazione del Consiglio, l'archiviazione delle istanze ove non sia necessaria una specifica istruttoria, laddove esista un consolidato e univoco orientamento dell'Autorità o della giurisprudenza, condiviso dall'Autorità medesima.

Tutte le archiviazioni sono comunicate ai soggetti istanti, dopo l'approvazione da parte del Consiglio».

All'art. 7, comma 1, le parole «dalla presentazione dell'istanza» sono sostituite dalle parole: «dall'avvio del procedimento».

All'art. 10, comma 1, sono soppresse le seguenti parole: «intranet ed».

Nelle more della predisposizione di un formulario on-line, per la compilazione delle istanze di pre-contenzioso, il formulario allegato al Regolamento è integralmente sostituito dal formulario allegato alla presente deliberazione.

Fondazione Studi Consulenti del Lavoro – In vigore il decreto sul riordino delle tipologie contrattuali

Fondazione Studi Consulenti del Lavoro, Comunicato Stampa del 25 giugno 2015

"DA OGGI IN VIGORE IL DECRETO SUL RIORDINO DELLE TIPOLOGIE CONTRATTUALI"

Al Festival del Lavoro diramata la circolare della Fondazione Studi n. 13/2015 con le prime istruzioni operative sul D.Lgs. n. 81/2015. Così cambiano i rapporti di lavoro.

Palermo, 25 giugno 2015 - Con il decreto legislativo n. 81/2015, cambia l’impostazione legislativa sulle false collaborazioni coordinate e continuative: se la precedente riforma Biagi - abrogata dal decreto - interveniva valorizzando le differenti caratteristiche tra il lavoro subordinato e la collaborazione autonoma, obbligando i committenti a indicare in contratto - e riscontrare in concreto - un risultato specifico che rappresenta una caratteristica essenziale del lavoro autonomo, ad oggi la riforma sposta l’indice di valutazione sulla modalità organizzativa adottata dall’azienda, attribuendo le medesime tutele previste per i lavoratori subordinati, anche a quelle forme di collaborazione - con o senza partita iva - che per caratteristiche di tempo e di luogo - e quindi per i profili organizzativi - sono sostanzialmente simili al lavoro subordinato. La circolare n.13/2015 della Fondazione Studi, pubblicata in data odierna in occasione del Festival del Lavoro di Palermo, analizza in dettaglio la nuova norma e fornisce agli addetti ai lavori un primo indirizzo interpretativo su come attuare la riforma nelle azienda assistite. Da un punto di vista della tecnica legislativa la nuova norma conferma la nozione classica di lavoro subordinato contenuta nell’art. 2094 c.c., affiancando ad essa una nuova nozione di “collaborazione organizzata” nella quale si attribuisce una valenza legislativa ad alcuni elementi sintomatici più significativi che marcano la differenza tra le due tipologie negoziali: ossia, il tempo e il luogo di lavoro. In presenza di questi requisiti, si applicano le stesse tutele al lavoro subordinato e al collaboratore autonomo. I requisiti possono essere certificati dalle commissioni di certificazione e il lavoratore può farsi assistere anche da un consulente del lavoro; in questo caso la norma conferma l’affidabilità dalla categoria dei consulenti del lavoro nel ruolo di terzietà. Scompaiono le associazioni in partecipazione ove l’associato sia una persona fisica che apporta lavoro. La circolare spiega che In considerazione del fatto che la norma fa riferimento alle “persone fisiche”, continuano ad avere efficacia le associazioni in partecipazione con apporto di lavoro laddove l’associato è rappresentato da un soggetto societario. In tema di riforma delle mansioni, il decreto introduce la possibilità di cambiare unilateralmente inquadramento al lavoratore in caso di modifiche agli assetti organizzativi destinate ad incidere sulla posizione del dipendente. Per spiegare il significato della “modifica degli assetti organizzativi” la circolare recupera un orientamento giurisprudenziale relativo al licenziamento individuale per giustificato motivo oggettivo, il quale sostiene che quest’ultimo sarà considerato sussistente ad esempio quando la variazione venga realizzata con lo scopo di una più economica gestione dell’impresa, e “decisa dall'imprenditore non semplicemente per un incremento del profitto, ma per far fronte a sfavorevoli situazioni, non meramente contingenti, influenti in modo decisivo sulla normale attività produttiva ed imponenti un'effettiva necessità di riduzione dei costi”(Cassazione, sez. lav., sent. n. 23222 del 17.10.2010).