Chi siamo


MEDIA-LABOR Srl - News dal mondo del lavoro e dell'economia


lunedì 30 giugno 2014

Riduzione dell’assegno di mantenimento

Se il marito, obbligato in seguito al divorzio al mantenimento della ex moglie, perde il posto di lavoro, può chiedere la riduzione dell’assegno divorzile. E’ quanto disposto dalla Corte di Cassazione nell’Ordinanza n.14501 del 18 febbraio-26 giugno 2014.

Adito per la definizione del giudizio per la dichiarazione di cessazione degli effetti civili del matrimonio, il Tribunale di Vallo della Lucania aveva posto a carico dell’marito  il contributo mensile di 600,00 € in favore della ex e di  ulteriori 400,00 € a beneficio della figlia convivente con la madre e non ancora indipendente economicamente.

L’uomo aveva impugnato la sentenza di primo grado, lamentando il peggioramento delle sue condizioni economiche in seguito al licenziamento subito   nelle more del giudizio di divorzio.

A detta del ricorrente, la ex moglie,  non avrebbe avuto diritto all’assegno divorzile, sia in considerazione del  patrimonio immobiliare della stessa, che   per le sue condizioni economiche, nonché per via della durata estremamente breve del matrimonio durato solo alcuni mesi.

L’uomo, inoltre, aveva sostenuto  che neanche la figlia fosse nelle condizioni di ricevere un assegno di mantenimento dal padre, disposto a pagarle solamente 260,00 € mensili per le eventuali spese straordinarie.

La vicenda è giunta all’attenzione della Cassazione dopo che la Corte di Appello aveva parzialmente accolto le richieste del ricorrente, riducendo a 450,00 € mensili l'assegno divorzile, ma lasciando però immutata la misura dell'assegno di mantenimento della figlia.

Investita della questione, la Suprema Corte ha rilevato che i giudici del merito avessero  riscontrato, da un lato, l'impossibilità per la donna di procurarsi con i propri mezzi economici non solo un tenore di vita tendenzialmente corrispondente a quello goduto in costanza di matrimonio, ma anche un tenore di vita dignitoso, e, dall’altro, la notevole sproporzione tra i redditi dei due ex coniugi, senza che le condizioni patrimoniali della ex moglie potessero  considerarsi tali da riequilibrarla.

Per tale ragione, la Cassazione ha respinto il ricorso dell’uomo, condannandolo al pagamento delle spese del processo di legittimità, liquidate in complessivi 2.200,00 €.

 Valerio Pollastrini

Accesso a siti pornografici - Appropriazione indebita

Nella sentenza n.27528 del 21 marzo–25 giugno 2014, la Suprema Corte ha ribadito la sussistenza del reato di appropriazione indebita, configurato dal dipendente pubblico che, durante il servizio, utilizzi internet  per accedere a siti  pornografici.

Nel caso di specie, la Corte di Appello Bari aveva confermato la sentenza con la quale il Tribunale di Trani, sezione distaccata di Molfetta,  aveva condannato un lavoratore per appropriazione indebita aggravata dall'art.61, numero 11, del Codice Penale e per interruzione di pubblico servizio.

La Corte del merito aveva rilevato che il dipendente avesse arrecato un  pregiudizio economico alla società pubblica per la quale prestava la propria attività, in quanto si era appropriato della linea telefonica aziendale, collegandosi ad Internet per motivi personali.

Dagli atti era emerso che l’imputato  aveva distolto le apparecchiature informatiche, preposte 24 ore su 24  al monitoraggio degli impianti della pubblica amministrazione, dalla telegestione cui erano preposte, interrompendo il servizio pubblico  per la durata degli illeciti collegamenti.

Contro questa sentenza, il lavoratore aveva adito la Cassazione, deducendo che il Giudice dell’Appello non avrebbe potuto considerare prove documentali le videoriprese eseguite da un privato.

A detta del ricorrente, inoltre,  l'utilizzo del computer non avrebbe determinato alcun danno alla società, presupponendo così l’insussistenza  dei reati contestatigli.

Lamentando come, in maniera del tutto apodittica, la corte territoriale avesse affermato che i filmati e le immagine fossero di natura pedopornografica, il lavoratore aveva sostenuto  l'assenza dell'elemento soggettivo del reato.

Investita della questione, la Suprema Corte ha premesso che, per  la soluzione della controversia, occorra prendere le mosse dalla sentenza n.26795 del 28 marzo 2006, nella quale  le Sezioni Unite, con riferimento alla materia delle videoregistrazioni, hanno  rimarcato la distinzione  tra documento e atto del procedimento oggetto di documentazione.

Nella richiamata pronuncia, infatti, è stato chiarito che le norme sui documenti, contenute nel codice di procedura penale, sono state concepite e formulate con esclusivo riferimento ai documenti formati fuori del processo.

A proposito della vicenda in commento, la Cassazione ha sottolineato che i giudici di merito avevano correttamente ritenuto acquisite le immagini visive, in quanto  effettuate di propria iniziativa dal privato, all'interno dell'edificio di propria spettanza.

Gli ermellini hanno quindi proseguito ricordando come nella sentenza impugnata fosse stato accertato  che l'imputato, approfittando dell'assenza dell'addetto all'ufficio ed avendo la disponibilità dei locali anche al termine delle attività di ufficio, invece di provvedere unicamente alle pulizie, avesse scelto di utilizzare il computer per visitare siti pedopornografici.

Per la Suprema Corte, la circostanza che la parte offesa non avrebbe subito danni, poiché   la società aveva stipulato un contratto flat con la società Fastweb,  comportante un unico  costo periodico, non aveva alcuna rilevanza ai fini della configurazione del reato.

L’oggetto dell’imputazione, infatti, non era rappresentato dall'uso dell'apparecchio telefonico, ma nell'appropriazione delle energie costituite da impulsi elettronici che erano entrate a far parte del patrimonio della parte offesa.

A detta della Cassazione, tale condotta aveva integrato la contestata ipotesi dell’appropriazione indebita.

Si tratta di una  conclusione del tutto coerente  con la consolidata giurisprudenza di legittimità  in materia di peculato (1).

E' altresì indubbio che il dipendente fosse consapevole dell’ingiusto profitto realizzato attraverso la  visione di siti pedopornografici per mezzo del  collegamento internet di proprietà di terzi.

Distogliendo il computer dalla gestione dell'impianto pubblico di illuminazione comunale per destinarlo all'accesso ai siti pornografici, l’imputato aveva inoltre interrotto il servizio di monitoraggio svolto nell'interesse pubblico, per tutta la durata dei collegamenti illeciti,  realizzando così il reato contestato di cui all'articolo 340 del Codice Penale.

In base a tutte le considerazioni esposte, la Cassazione ha rigettato il ricorso del lavoratore, rilevando, tuttavia, l’estinzione dei reati contestati per intervenuta prescrizione.

Valerio Pollastrini

 
(1) - Cass., Sentenza n.3879 del  23 ottobre 2000; Cass., Sentenza n.25273 del  9 maggio 2006; Cass., Sentenza n.21335 del  26 febbraio 2007;

Nuove procedure per gli appalti pubblici

Nell’ambito degli appalti pubblici, dal prossimo 1° luglio i piccoli comuni non potranno più indire gare se non attraverso le centrali di committenza, che però, ad oggi, o non sono ancora entrate a regime, o risultano non del tutto utilizzabili.

A sua volta, inoltre, l'entrata in vigore del sistema di verifica dei requisiti dei concorrenti, fondato sul sistema Avcpass, elaborato  dalla soppressa Autorità di vigilanza sui contratti pubblici, potrebbe creare un blocco delle procedure di gara.

Molte stazioni appaltanti, infatti,  non hanno aderito alla piattaforma e diversi operatori, nel rilevare alcuni problemi di funzionamento,  paventano l’insorgenza di inevitabili contenziosi.

Il Ministero delle Infrastrutture  sembra però orientato ad una proroga dell'Avcpass fino al termine del 2014.

Il rischio è quello dello stallo, anche in considerazione del fatto che, stando alla relazione dell'Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici presentata al Governo e al Parlamento lo scorso anno,  in Italia  il totale dei contratti pubblici affidati nel 2012, connessi a lavori, forniture e servizi,  è stato pari a 95,3 miliardi di euro, corrispondenti a  circa 125.700 contratti, stipulati per un importo  superiore ai 40.000,00 €.

Il principale fattore di criticità è costituito dall'entrata in vigore della Legge n.89  del 23 giugno 2014 (1), che ha introdotto,  per tutti i comuni non capoluogo di provincia, l’obbligo  di acquisire dal prossimo 1° luglio lavori, beni e servizi attraverso le centrali di committenza, la Consip, gli accordi consortili o le unioni di comuni.

La stessa norma (2), comunque, salvaguarda la possibilità di acquisire, mediante procedura ad evidenza pubblica, beni e servizi (non lavori), qualora i relativi prezzi siano inferiori a quelli emersi dalle gare effettuate dalla Consip e dai soggetti aggregatori, lasciando quindi qualche spiraglio alle amministrazioni.

Tuttavia, l'obbligo generale persiste ed  in caso di mancato  ricorso al soggetto aggregatore, l'Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici (3) non  rilascerà alle stazioni appaltanti il codice identificativo di gara (4), adempimento indispensabile per ogni bando.

Come detto, il  problema è palesato dalla circostanza che in molti casi, a livello regionale, le centrali di committenza  non sono state istituite (5) ed, inoltre, risulta che diversi comuni non capoluogo di provincia non si sono ancora consorziati od uniti per centralizzare le procedure di acquisto di beni, lavori e servizi.

A ciò si aggiunga che per alcune categorie di servizi e di lavori non esistono convenzioni Consip alle quali  i comuni possano aderire.

Un altro  fattore di rischio è quello connesso all'entrata in vigore dell'obbligo di verifica dei requisiti dichiarati in sede di gara dai concorrenti esclusivamente tramite il cosiddetto Avcpass, il sistema gestito dalla soppressa Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici.

Sia le stazioni appaltanti, che diversi settori imprenditoriali, infatti,  hanno segnalato delle difficoltà applicative che, in presenza del richiamato obbligo  di legge, potrebbero determinare seri rischi di blocco delle procedure, oltre che   di contenzioso, laddove le amministrazioni continuassero invece a ricorrere alla consueta prassi di verifica documentale.

In relazione alle difficoltà fin qui evidenziate, si segnale che lo scorso 25 giugno la senatrice Adele Gambaro ha inoltrato un’interpellanza  ai ministri Lupi e  Guidi, ai quali è stato richiesto di valutare l’opportunità di  riconsiderare il sistema Avcpass, la cui operatività dovrebbe decorrere dal prossimo 1° luglio o, al limite, quella di confermare, nelle more, la piena funzionalità dei meccanismi tradizionali di controllo cartacei.

Valerio Pollastrini

 
(1)   - Legge di conversione del D.L. n.66 del 24 aprile 2014, pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale n.143 del 23 giugno 2014;
(2)   - Articolo 9 della legge n.89 che in un comma sostituisce integralmente il comma 3-bis dell'articolo 33 del codice dei contratti pubblici;
(3)   - Anac (guidata da Raffaele Cantone);
(4)   – Cig;
(5)   - La norma consente di farlo entro il 31 dicembre 2014;

Pensioni – In arrivo la quattordicesima

In una nota del 30 giugno 2014, l’Inps ha ricordato che,  con la riscossione della rata mensile di luglio, i pensionati con un’età pari o superiore a  64 anni riceveranno  una somma aggiuntiva a titolo di  quattordicesima mensilità. 

Nella nota, l’Istituto ha specificato come l’aumento spetti, in misura proporzionale, anche a coloro che compiono il 64° anno di età entro il 31 dicembre 2014, con riferimento ai mesi di requisito anagrafico. 

Per ulteriori informazioni si rimanda al messaggio 5662 del 27 giugno 2014.

Valerio Pollastrini

Figura professionale del fisioterapista

Nell’Interpello n.16 del 26 giugno 2014, il Ministero del lavoro ha fornito i chiarimenti sollecitati dalla Confindustria in ordine alla corretta interpretazione della disciplina di cui all’art. 69 bis del D.Lgs. n.276/2003, concernente le prestazioni di lavoro autonomo espletate dai soggetti titolari di partita IVA.

In particolare, l’istante aveva chiesto se la presunzione relativa di parasubordinazione possa trovare applicazione nei confronti della categoria professionale dei fisioterapisti, laddove ricorrano i presupposti previsti dalla medesima norma.

Il Ministero ha ricordato come la norma suddetta, al fine di contrastare l’utilizzo “distorto” dello strumento delle c.d. partite IVA, ha previsto  una presunzione di parasubordinazione, in virtù della quale è possibile ricondurre le prestazioni di lavoro autonomo  nell’ambito della diversa forma di natura autonoma della collaborazione coordinata e continuativa a progetto di cui agli artt. 61 e ss. del citato Decreto.

La predetta presunzione trova applicazione in presenza di determinate condizioni di legge, salvo prova contraria da parte del committente (1).

Il secondo comma  dell’art.69 bis, ha però escluso l’operatività di tale presunzione nelle ipotesi in cui la prestazione implichi competenze teoriche di grado elevato, ovvero capacità tecnico-pratiche acquisite attraverso rilevanti esperienze, e sia svolta da soggetto titolare di un reddito annuo da lavoro autonomo non inferiore a 1,25 volte il livello minimo imponibile ai fini del versamento dei contributi previdenziali.

Parimenti, il terzo comma ha escluso l’applicabilità della presunzione in relazione alle prestazioni lavorative svolte nell’esercizio di attività professionali per le quali l’ordinamento richiede l’iscrizione ad un ordine professionale, ovvero ad appositi registri, albi, ruoli o elenchi professionali qualificati e detta specifici requisiti e condizioni.

Con apposito Decreto del 20 dicembre 2012, il Ministero ha provveduto ad effettuare una ricognizione delle suddette attività, individuando i seguenti criteri di ordine generale:

- gli ordini o collegi professionali, i registri, gli albi, i ruoli e gli elenchi professionali  sono esclusivamente quelli tenuti o controllati da una amministrazione pubblica di cui all’art. 1, comma 2, del D.Lgs. n.165/2001, nonché da federazione sportive;

- l’iscrizione è subordinata al superamento di un esame di stato o comunque alla necessaria valutazione, da parte di specifico organo, dei presupposti legittimanti lo svolgimento delle attività.

Tornando all’istanza in commento, il Ministero interpellato ha sottolineato come, per diramare la questione, occorra  verificare se i due requisiti sopra richiamati siano riscontrabili con riferimento alla figura professionale in esame.

Dalla lettura dell’art.2 del Decreto del Ministero della Sanità del 14 settembre 1994, n.741, si evince che il diploma universitario di fisioterapista abilita all’esercizio della professione.

Tale titolo, infatti, viene  rilasciato a seguito del completamento del corso di studi e del superamento di un esame finale che involge la valutazione di una specifica commissione costituita presso l’Università.

Il possesso di questo diploma, o attestato equipollente, ovvero titolo riconosciuto ai sensi della normativa statale vigente,  inoltre, costituisce  requisito indispensabile ai fini dell’iscrizione negli elenchi professionali dei fisioterapisti, laddove istituiti con legge regionale (2).

Alla luce delle osservazioni svolte, si ritiene pertanto che l’attività svolta dai fisioterapisti possa essere ricompresa nell’ambito delle prestazioni professionali di cui all’art. 69 bis, comma 3, con la conseguente esclusione dall’applicazione della presunzione, solo nella misura in cui gli stessi risultino in possesso del diploma abilitante, nonché iscritti in appositi elenchi professionali, tenuti e controllati da parte di una amministrazione pubblica.

Il Ministero ha poi concluso ricordando che, a prescindere dall’operatività o meno della presunzione, resta fermo che, laddove siano riscontrabili gli usuali indici di subordinazione, la prestazione di lavoro autonomo dei fisioterapisti potrà essere “direttamente” ricondotta ad un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato.

Valerio Pollastrini


(1)   - Come chiarito nella Circolare n.32/2012 del Ministero del lavoro;
(2)   (cfr. ad es. Legge Regione Lazio n.17 /2002;

Esposizione ad amianto

Nella sentenza n.11831 del 27 maggio 2014, la Corte di Cassazione ha chiarito che, al fine di stabilire la sussistenza del nesso causale tra il cancro polmonare ed esposizione del lavoratore all'amianto, il Consulente Tecnico d'Ufficio, oltre ad utilizzare l'archivio "Amyant" dell'Inail, può incentrare la sua valutazione anche sui dati ricavati dalla descrizione delle mansioni  assegnate agli operai impiegati presso lo stabilimento del datore di lavoro, nonché quelli evidenziati dai risultati scientifici ottenuti sul campo.

Nel caso di specie, la Cassazione ha ritenuto corretto il procedimento logico adottato dalla Corte di Appello, che aveva ritenuto che il vizio del fumo non avesse influito nell'insorgere della malattia, in quanto il danneggiato aveva smesso di fumare  trent'anni prima dell'insorgenza del tumore.

Valerio Pollastrini

Incentivi per l’occupazione nel settore agricolo

Il Decreto Legge n.91 del 24 giugno 2014, ha introdotto, tra l’altro, alcune disposizioni urgenti per il settore agricolo.

Nello specifico, il Decreto, emanato su proposta del Presidente del Consiglio dei Ministri e dei Ministri delle politiche agricole alimentari e forestali, dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare e dello sviluppo economico di concerto con altri Ministeri interessati, contiene:

-         disposizioni per il coordinamento dell’attività ispettiva nei confronti delle attività agricole;
-         disposizioni urgenti per il rilancio e la tutela del Made in Italy;
-         disposizioni per l’incentivo all’assunzione di giovani lavoratori agricoli e la riduzione del costo del lavoro in agricoltura.

Al fine di promuovere forme di occupazione stabile in agricoltura di giovani di età compresa tra i 18 e i 35 anni, sono stati introdotti incentivi pari ad un terzo della retribuzione lorda per le assunzioni a tempo indeterminato o per le assunzioni con contratto a termine della durata di almeno 3 anni.

Queste assunzioni devono riguardare lavoratori di età compresa tra i 18 ed i 35 anni, che si trovano in una delle seguenti condizioni:

-         privi di impiego regolarmente retribuito da almeno sei mesi;
-         privi di un diploma di istruzione secondaria di secondo grado.

Valerio Pollastrini

Agricoltura - Deduzione Irap sul lavoro a tempo determinato

Il Decreto di Riforma dell’agricoltura, pur se meno incisivo rispetto al progetto iniziale, contiene comunque alcune misure importanti per giovani e lavoro.

La novità più importante è costituita dall’estensione della deduzione Irap sul lavoro a tempo determinato, vale a dire la fattispecie contrattuale più diffusa in agricoltura.

Per il diritto alla deduzione  è però necessario che i contratti abbiano una durata di almeno tre anni ed impegnino il lavoratore per non meno di 150 giornate.

In questo caso, lo sconto su base annua  è pari a 3.750,00 €  per ogni lavoratore dipendente.

L’importo della deduzione annua  sale a 6.750,00 € per le lavoratrici ed i giovani di età inferiore a 35 anni.

Valerio Pollastrini

Trattamento di disoccupazione edile ex art. 11, L. n. 223/1991

Nell’Interpello n.14 del 26 giugno 2014 il Ministero del lavoro ha fornito i chiarimenti richiesti dall’Associazione Nazionale Costruttori Edili in merito alla corretta applicazione del trattamento di disoccupazione edile di cui all’art. 11 della Legge n.223/1991.

In particolare, l’interpellante aveva chiesto se  il punto 3 della Delibera CIPI del 19 ottobre 1993, che fissa in 40 unità il numero dei lavoratori licenziati cui applicare il citato trattamento di disoccupazione , risulti applicabile anche nelle circoscrizioni che presentino un rapporto superiore alla media nazionale fra iscritti alla prima classe di collocamento e la popolazione residente in età da lavoro.

Al riguardo, il Ministero ha ricordato che la Legge n.92/2012 ha introdotto un sistema generalizzato di protezione dalla disoccupazione involontaria, attraverso l’introduzione delle indennità di disoccupazione ASpI e mini Aspi.

Detta Legge ha abrogato, a far data dal 1° gennaio 2017, molti dei trattamenti previgenti, tra i quali il trattamento speciale di disoccupazione per l’edilizia di cui all’art.11 della Legge n.223/1991, il quale, comunque, risulta ancora applicabile per i e licenziamenti intervenuti entro la data del 30 dicembre 2016 (1).

Di conseguenza, deve considerarsi tutt’ora validamente operante il trattamento di disoccupazione speciale per l’edilizia, così come disciplinato prima dell’entrata in vigore della Legge  n. 92/2012 e secondo le modalità dettate dalle diverse disposizioni che ad esso fanno riferimento.

La Delibera CIPI del 19 ottobre 1993 (2), richiamata dall’istante,  individua gli ambiti territoriali circoscrizionali che presentano un rapporto superiore alla media nazionale tra iscritti alla prima classe delle liste di collocamento e popolazione residente, interessati dal trattamento di disoccupazione ex art. 11, comma 3, della Legge n.223/1991 nella misura prevista dal punto 3 della stessa Delibera CIPI.

In sostanza l’art. 11, comma 2, della Legge n. 223/1991 prevede l’applicazione del trattamento speciale di disoccupazione per i lavoratori  edili nelle aree nelle quali il CIPI abbia accertato la sussistenza di uno stato di grave crisi dell’occupazione e licenziati a causa di tale stato di crisi.

Ai sensi del successivo comma 3, il trattamento in questione  risulta esteso ai lavoratori residenti in circoscrizioni che presentano un rapporto superiore alla media nazionale tra iscritti alla prima classe di collocamento e popolazione residente in età da lavoro.

In applicazione di tale precetto, con Delibera del 19 ottobre 1993 il CIPI ha individuato i casi di crisi occupazionale che consentono la fruizione del trattamento speciale di disoccupazione edile, definendo, da un lato, la nozione di opera pubblica e di finalità pubblica e, dall’altro, prevedendo  che il numero dei lavoratori edili licenziati non deve essere inferiore a 40 unità  nelle circoscrizioni che presentino un rapporto superiore alla media nazionale tra iscritti alla prima classe di collocamento e popolazione residente in età da lavoro.

L’effettiva individuazione della misura percentuale del rapporto cui fanno riferimento sia la Legge n.223/1991 che la Delibera CIPI suddetta è stata effettuata con Decreto del Ministero del lavoro e delle politiche sociali del 14 gennaio 2003, che ha fissato nel 18,4% la soglia della media nazionale, il superamento della quale comporta l’applicazione del punto 3 della Delibera CIPI e dell’art.11 della Legge  n. 223/1991.

In allegato al D.M. 14 gennaio 2003 sono stati riportati i dati riferibili alle circoscrizioni territoriali che determinano il relativo rapporto percentuale.

A tal proposito il Ministero ha chiarito che, in assenza della emanazione di successivi Decreti, tali dati possano essere ancora utili ai fini della fruizione del trattamento speciale di disoccupazione edile.

Per individuare le circoscrizioni interessate dalle norme esaminate è sufficiente, pertanto, consultare gli allegati al citato Decreto.

In conclusione, fino al 30 dicembre 2016, riconosciute le circoscrizioni nelle quali il rapporto tra iscritti alla prima classe di collocamento e popolazione residente in età di lavoro risulta superiore al 18,4%, si applica  il trattamento speciale di disoccupazione edile di cui all’art. 11, della Legge n. 223/1991 per coloro che rientrano nell’area in cui sono ricompresi i cantieri sorti per lo svolgimento di opere con finalità pubbliche e licenziati, in numero superiore a 40 unità, a causa di gravi crisi dell’ occupazione.

Valerio Pollastrini

 
(1)   – Come chiarito dalla Circolare INPS  n. 2/2013;
(2)   - cui rimanda espressamente l’art.11, comma 2, della Legge  n. 223/1991 ed il D.M. 14 gennaio 2003;

sabato 28 giugno 2014

Licenziamento illegittimo del dirigente

Nella sentenza n.13959 del 19 giugno 2014, la Corte di Cassazione è intervenuta in merito ai risarcimenti del danno connessi al licenziamento illegittimo di un dirigente.

Il Tribunale di Verona, in parziale accoglimento del ricorso, aveva ritenuto illegittimo il licenziamento irrogato al direttore generale dell’Aeroporto di Verona-Villafranca ed aveva condannato la società  al pagamento in suo favore di oltre 460 mila euro  a titolo di risarcimento del danno per l’anticipata risoluzione del rapporto di lavoro, nonché a titolo di indennità supplementare e di indennità sostitutiva del preavviso.

Il lavoratore aveva interposto appello per il mancato accoglimento delle domande  aventi ad oggetto il risarcimento del danno  arrecato dal demansionamento ed i comportamenti definiti “mobbizzanti” asseritamente diretti contro di lui, nonché per quella tendente a risarcire la mancata indicazione degli obiettivi da parte della società per l’anno 2003 come contrattualmente previsto.

Il ricorrente, inoltre, aveva impugnato   la liquidazione dell’indennità supplementare nella misura minima di due mensilità.

Nel rigettare le ulteriori domande del dipendente, la Corte di Appello di Venezia aveva sottolineato come  il primo giudice avesse legittimamente  disatteso le richieste di prova testimoniale formulate dall’attore per dimostrare la condotta illecita denunciata, in quanto irrilevanti, generiche ed inammissibili.

Parimenti, la Corte territoriale aveva condiviso l’assunto per il quale era stata rigettata la domanda relativa alla mancata indicazione degli obiettivi per l’anno 2003.

A tal fine, il ricorrente avrebbe dovuto offrire ulteriori elementi a sostegno del diritto al risarcimento del danno, in modo che si potesse ritenere che, ove prefissati, i suddetti obiettivi sarebbero stati raggiunti.

Il giudice dell’appello aveva concluso, ribadendo l’adeguatezza della liquidazione dell’indennità supplementare nella misura minima, in quanto il licenziamento era stato irrogato in epoca in cui esisteva un serio contrasto giurisprudenziale in ordine all’applicabilità dell’art.7 della legge n.300 del 1970 ai dirigenti.

Contro questa sentenza, il lavoratore aveva adito la Cassazione, contestando, riguardo al  mobbing,  sia l’istanza di reiezione delle prove orali, sia l’omesso esame di 36 documenti ritenuti  di primaria importanza.

A proposito della presunta inadeguatezza della quantificazione dell’indennità supplementare liquidata nella misura minima, il dipendente aveva rilevato che il licenziamento sarebbe dovuto essere  considerato illegittimo, oltre che per quelli formali,  anche per motivi sostanziali.

Con l’ultima critica si denuncia, da ultimo, omessa, insufficiente, contraddittoria motivazione riguardo al mancato riconoscimento del risarcimento del danno per violazione dell’impegno contrattuale di fissare annualmente gli obiettivi aziendali.

In merito alla prima censura, la Suprema Corte ha ribadito il principio in base al quale il vizio di motivazione per omessa ammissione della prova testimoniale o di altra prova può essere denunciato per Cassazione solo nel caso in cui essa abbia determinato l’omissione di motivazione su un punto decisivo della controversia e, quindi, ove la prova non ammessa ovvero non esaminata in concreto sia idonea a dimostrare circostanze tali da invalidare, con un giudizio di certezza e non di mera probabilità, l’efficacia delle altre risultanze istruttorie che hanno determinato il convincimento del giudice di merito, di modo che la ratio decidendi venga a trovarsi priva di fondamento (1).

A detta della Cassazione, nel caso di specie nessuno dei capitoli di prova testimoniale non ammessi dai giudici di merito si riferisce a fatti dotati di tale carattere di decisività.

Quanto poi ai 36 documenti  di cui il lavoratore aveva  lamentato l’omesso esame, gli ermellini hanno  rilevato come, ove si denunci ai giudici di legittimità il difetto di motivazione sulla valutazione di un documento, sussiste l’onere di indicare nel ricorso il contenuto del documento trascurato od erroneamente interpretato dal giudice di merito, trascrivendone il contenuto essenziale e fornendo, al contempo,  elementi sicuri per consentire alla Corte di individuarli e di reperirli negli atti processuali (2).

Nella vicenda in commento, il suddetto onere era stato del tutto  trascurato nel ricorso posto all’attenzione della Corte di legittimità.

Infine, non può essere accolta neanche la censura relativa all’invocato  difetto di motivazione sulla  quantificazione dell’indennità supplementare nella misura minima, nonostante il licenziamento fosse da considerare illegittimo anche per motivi sostanziali, oltre che per quelli formali riscontrati dai giudici di merito.

Nel ricorso, infatti, l’istante non aveva  riportato il contenuto della clausola della contrattazione collettiva sulla quale  aveva fondato la pretesa della liquidazione dell’indennità in una diversa misura.

A questo riguardo, la Cassazione ha rammentato come il giudizio sull’ammontare dell’indennità supplementare spettante ai dirigenti sia rimesso alla valutazione discrezionale del giudice di merito e che, pertanto, non può essere censurato in sede di legittimità, se non per vizio di motivazione (3).

Nel caso di specie, la valutazione compiuta dalla Corte di Appello di Venezia non appare né illogica né contraddittoria,  laddove aveva concluso per il minimo della indennità supplementare, considerando che il licenziamento fosse stato dichiarato illegittimo per un motivo formale sul quale, al momento dell’adozione del recesso, sussisteva un serio contrasto giurisprudenziale.

A proposito della doglianza  sul mancato riconoscimento del risarcimento del danno per violazione dell’impegno contrattuale di fissare annualmente gli obiettivi aziendali, il ricorrente aveva ritenuto che, poiché per previsione del contatto individuale di lavoro, gli obiettivi andavano concordati entro il 31 marzo di ogni anno, il non avervi provveduto giustificherebbe automaticamente la legittimità della richiesta risarcitoria.

Si tratta di un assunto giudicato privo di rilevanza dalla Cassazione, che ha ribadito il principio di diritto (4) in base al quale l’inadempimento del datore di lavoro per violazione di obblighi derivanti dal contratto è regolato dagli artt. 1218 e  1223 del codice civile, valendo anche in questo caso la distinzione tra “inadempimento” e “danno risarcibile” secondo gli ordinari canoni civilistici per i quali i danni attengono alla perdita o al mancato guadagno che siano “conseguenza immediata e diretta” dell’inadempimento, lasciando così chiaramente distinti il momento della violazione degli obblighi da quello, solo eventuale, della produzione del pregiudizio.

Dall’inadempimento datoriale, pertanto, non deriva  automaticamente l’esistenza del danno ed il soggetto che se ne dolga deve allegare e provare l’effettività ed entità del pregiudizio.

La sostenuta tesi che la violazione dell’obbligo contrattuale giustificherebbe di per sé il risarcimento del danno, attribuendo una somma di denaro in considerazione del mero accertamento dell’inadempimento e configurandosi come una sanzione civile punitiva estranea al nostro ordinamento appare del tutto infondata.

Alla stregua delle osservazioni esposte, la Suprema Corte ha rigettato il ricorso ed ha condannato il lavoratore al pagamento delle spese del processo di legittimità, liquidate in 5.000,00 € per compensi professionali, 100,00 € per esborsi, oltre accessori.

Valerio Pollastrini


(1)   - Cass., Sentenza  n.11457/2007; Cass., Sentenza n.4369/2009; Cass., Sentenza n.5377/2011;
(2)   - Cass. SS.UU., Sentenza n.5698  dell’11 aprile 2012; Cass. SS.UU., Sentenza n.22726 del  3 novembre 2011; Cass., Sentenza n.15477 del 14 settembre 2012; Cass., Sentenza n.15952 del 17 luglio 2007;
(3)   - Cass., Sentenza n.389/1998;
(4)   - Cass. SS. UU., Sentenza n.6572/2006;

Condanna per l’installazione di un ponteggio senza marchio di fabbrica

Nella sentenza n.27693 del 26 giugno 2014, la Corte di Cassazione ha confermato la condanna emessa ai danni di un datore di lavoro edile che aveva installato in cantiere dei ponteggi privi dell’indicazione del marchio di fabbrica.

Nel caso di specie, il giudizio del merito aveva ritenuto un imprenditore responsabile del reato di cui all’art.135 del D.lgs. n.81/2008, in quanto aveva installato un ponteggio metallico a telaio  sprovvisto di marchio di fabbricazione  per effettuare lavori di intonaco alla parete perimetrale esterna di un edificio.

Nell’adire la Cassazione, l’imputato aveva rilevato come la norma suddetta fosse entrata in vigore di recente e che, pertanto, la sua mancata conoscenza del relativo precetto fosse giustificata, in quanto, trovandosi in perfetta buona fede, sarebbe  caduto in errore scusabile, con conseguente difetto dell’elemento soggettivo del reato.

Investita della questione, la Suprema Corte ha  sottolineato che la disposizione violata dall’imputato non può dirsi del tutto nuova rispetto alla previgente normativa in materia di prevenzione degli infortuni sul lavoro.  Anche l’art. 22 del D.P.R. 547/55, infatti, dispone per le scale aeree ed i ponti mobili sviluppabili l’obbligo di apposizione di una targa indicante, rispettivamente,  il nome del costruttore, il luogo e l’anno di costruzione, nonché la sua portata massima.

La Cassazione ha poi aggiunto che l’inserimento nel particolare ambito delle costruzioni edili, comporta, in ogni caso, l’inderogabile onere di fornire ai dipendenti adeguate informazioni sulle regole che  disciplinano il settore, tanto più quando queste riguardino, come nella fattispecie, la sicurezza dei luoghi di lavoro.

La mancata attuazione del suddetto obbligo di informazione, pertanto, palesa la piena sussistenza dell’elemento soggettivo necessario per la configurabilità della contravvenzione contestata all’imprenditore, con la contestuale esclusione  della possibilità di ipotizzare la buona fede o l’errore scusabile, invocati nell’atto di impugnazione.

Per tutte le richiamate motivazioni, la Cassazione ha rigettato il ricorso, confermando la condanna dell’imprenditore.

Valerio Pollastrini

Nessuna rendita se i familiari del lavoratore deceduto nell’infortunio vantano mezzi di sussistenza sufficienti al mantenimento

Nella sentenza n.14498 del 26 giugno 2014, la Suprema Corte ha affermato che, in caso di decesso del dipendente in seguito ad infortunio sul lavoro,  i familiari superstiti non hanno diritto all’indennità Inail se risultano in possesso di mezzi propri sufficienti al loro mantenimento.

Il caso è giunto al vaglio della Cassazione dopo che il Tribunale e la Corte di Appello di Cagliari avevano rigettato la domanda avanzata dalla madre di un dipendente deceduto in seguito ad infortunio sul lavoro,  volta a conseguire la rendita ai superstiti prevista dall’art.85 del D.P.R. n.1124/65.

Nonostante avesse accertato che il lavoratore contribuisse al mantenimento della madre con la quale conviveva, la Corte del merito aveva escluso la presenza del requisito dell’insufficienza dei mezzi di sussistenza della donna, sulla base del rilievo secondo cui, tenuto conto della pensione di reversibilità integrata al minimo della quale godeva, il reddito residuo, detratto l’affitto per la casa di abitazione IACP, pur  assai limitato, non fosse insufficiente a fronteggiare le primarie esigenze di vita.

Investita della questione, la Cassazione ha sottolineato  che, ai sensi dell’art.106 del  D.P.R.  n.1124 del 30 giugno 1965, la vivenza a carico è provata quando risulti che gli ascendenti si trovino senza mezzi di sussistenza autonomi sufficienti e quando al mantenimento di essi concorreva in modo efficiente il defunto.

In proposito, la Cassazione ha ribadito   che l’espressione “mezzi di sussistenza”, con cui l’art.106 del suddetto D.P.R. definisce lo stato di vivenza a carico, richiama l’analoga espressione “mezzi necessari per vivere” di cui all’art.38, primo comma, della Costituzione, e non i “mezzi adeguati di vita del lavoratore”, di cui al secondo comma.

Per quanto attiene  all’individuazione dei cespiti e dei debiti rilevanti per la valutazione della sufficienza dei mezzi propri di sussistenza, la Suprema Corte ha ritenuto corretta la premessa sottesa nella decisione del giudice d’appello, il quale aveva attribuito rilievo al reddito da pensione ed ai debiti inerenti alla casa di abitazione, e non a fatti eccezionali, quali i debiti ereditati dal marito defunto nella gestione dell’attività commerciale.

Per accertare il diritto alla rendita in commento, nel tempo la giurisprudenza di legittimità ha focalizzato la propria attenzione  sul rapporto tra il contributo del de cuius con i mezzi propri dell’ascendente.

Per quanto riguarda l’apporto del lavoratore deceduto, il principio scaturito dalla suddetta analisi  non richiede che il superstite fosse totalmente mantenuto in tutti i suoi bisogni dal defunto, ma impone, altresì, che quest’ultimo abbia contribuito in modo efficiente al suo mantenimento, mediante aiuti economici che, per la loro costanza e regolarità, costituivano un mezzo normale, anche se parziale, di sussistenza (1).

Affinché la rendita sia dovuta, la giurisprudenza, però, è parimenti concorde nel ritenere necessaria la presenza dell’ulteriore presupposto dell’insufficienza dei mezzi propri di sussistenza (2).

Tornando al caso di specie, la Cassazione ha ricordato come la valutazione sulla sufficienza della pensione percepita, depurata dell’onere del canone di affitto dell’alloggio assegnato dall’Istituto autonomo case popolari, costituisce un’analisi tipica, di fatto insindacabile in sede di legittimità.

Conseguentemente, la Suprema Corte ha rigettato il ricorso ed ha condannato la donna al pagamento delle spese processuali, liquidate in 1.500,00 € per compensi professionali, 100,00 € per esborsi, oltre accessori di legge.

Valerio Pollastrini

 
(1)   - Cass., Sentenza n.6794 del 18 maggio 2001; Cass., Sentenza n.5910 del 12 giugno 1998; Cass., Sentenza n.3069 del  4 marzo 2002; Cass., Sentenza n.15914 del  28 luglio 2005;
(2)   - Cass., Sentenza n.2630/2008; Cass., Sentenza n.29238/2011;

Permessi per l’assistenza di persona con handicap

Nell’Interpello n.19 del 26 giugno 2014, il Ministero del lavoro ha fornito i chiarimenti richiesti dall’ANQUAP e dalla CIDA in ordine alla corretta interpretazione dell’art. 33, comma 3,  della Legge n.104/1992 (1), concernente il diritto del lavoratore dipendente di fruire di tre giorni di permesso mensile retribuito per l’assistenza al familiare con handicap in situazione di gravità.

In particolare, gli istanti avevano chiesto se l’estensione del diritto in argomento al parente o affine entro il terzo grado, prevista dalla disposizione sopra citata, possa prescindere dalla eventuale presenza nella famiglia dell’assistito di parenti o affini di primo e secondo grado che siano nelle condizioni di assisterlo, dovendo dunque essere esclusivamente comprovata una delle particolari condizioni del coniuge e/o dei genitori della persona in situazione di gravità richieste dalla norma stessa.

In via preliminare, il Ministero ha ricordato che la norma sopra richiamata prevede che “a condizione che la persona handicappata non sia ricoverata a tempo pieno, il lavoratore dipendente, pubblico o privato, che assiste persona con handicap in situazione di gravità, coniuge, parente o affine entro il secondo grado, ovvero entro il terzo grado qualora i genitori o il coniuge della persona con handicap in situazione di gravità abbiano compiuto i sessantacinque anni di età oppure siano anche essi affetti da patologie invalidanti o siano deceduti o mancanti, ha diritto a fruire di tre giorni di permesso mensile retribuito coperto da contribuzione figurativa, anche in maniera continuativa”.

La disposizione in esame, pertanto, chiarisce come  il coniuge ed il parente o affine entro il secondo grado siano i soggetti prioritariamente legittimati a fruire dei permessi per l’assistenza a persona in situazione di gravità.

Nei casi in cui i genitori o il coniuge della persona da assistere abbiano compiuto i 65 anni di età o  siano affetti da patologie invalidanti o siano deceduti o mancanti, invece, sarà un parente od affine entro il terzo grado a poter utilizzare i permessi.

Il Ministero ha poi  precisato che i permessi in argomento possano essere fruiti dal parente o affine entro il terzo grado anche qualora le condizioni sopra descritte si riferiscano ad uno solo dei soggetti menzionati dalla norma.

Estendere il diritto al terzo grado solamente nel caso i cui  tutti i soggetti prioritariamente interessati si trovino nella impossibilità di assistere il disabile, finirebbe, infatti, per restringere fortemente la platea dei soggetti interessati.

Alla luce delle osservazioni svolte, dunque,  al fine di consentire la fruizione dei permessi ex art. 33, comma 3, della Legge n.104/1992 ai parenti o affini entro il terzo grado, basta solamente dimostrare che il coniuge e/o i genitori della persona con handicap grave si trovino in una delle specifiche condizioni stabilite dalla  norma, a nulla rilevando, invece,  il riscontro della presenza nell’ambito familiare di parenti o affini di primo e di secondo grado.

Valerio Pollastrini


(1)   - così come modificato dall’art.24 della Legge n.183/2010;

Disciplina del lavoro intermittente - Personale di servizio e di cucina negli alberghi - Attività in appalto

Nell’Interpello n.17 del 26 giugno 2014, il Ministero del lavoro ha fornito i chiarimenti richiesti dalla Confindustria  in merito alla corretta interpretazione della disciplina del lavoro intermittente di cui agli artt.33 e seguenti del D.Lgs. n.276/2003.

In particolare, l’istante aveva chiesto  se un’impresa appaltatrice potesse ricorrere alla tipologia contrattuale del lavoro intermittente con riferimento all’attività espletata da “personale di servizio e di cucina negli alberghi” di cui al n.5 della tabella allegata al R.D. n.2657/1923 per l’esecuzione di un servizio di pulizia all’interno della struttura alberghiera dell’impresa committente.

In via preliminare, il Ministero ha ricordato che, ferme restando le causali di carattere oggettivo e soggettivo (1) in  ordine all’utilizzo del lavoro intermittente, è necessario analizzare quanto disposto  dall’art. 40 del D.Lgs. n.276/2003, ai sensi del quale, nel caso in cui la contrattazione collettiva nazionale non  avesse disciplinato le fattispecie di legittimo ricorso a tale istituto, è possibile fare riferimento alle attività elencate nella tabella approvata con il R.D. n.2657/1923 (2).

Di conseguenza, ai fini della corretta instaurazione di rapporti di lavoro intermittente,
il criterio seguito dal Legislatore afferisce esclusivamente alla tipologia di attività effettivamente svolta dal prestatore, prescindendo dalla circostanza che l’attività in questione sia effettuata direttamente dall’impresa o tramite contratto di appalto.

Il Ministero, pertanto, ha chiarito che, in assenza di specifica previsione da parte della contrattazione collettiva in ordine alle fattispecie per le quali sia consentito l’utilizzo del contratto in argomento, anche l’impresa appaltatrice possa legittimamente attivare rapporti di natura intermittente per lo svolgimento del servizio di pulizia all’interno di un albergo ai sensi del n.5 della tabella allegata al Regio Decreto del 1923.

Valerio Pollastrini

 
(1)   - contemplate dall’art.34 del D.Lgs. n.276/2003;
(2)   - secondo quanto previsto nel D.M. 23 ottobre 2004;