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martedì 29 aprile 2014

Permessi elettorali

In prossimità delle elezioni europee, si riepiloga la particolare disciplina relativa ai permessi concessi in favore dei lavoratori subordinati impegnati nei seggi.

In occasione di ogni consultazione elettorale, coloro chiamati ad adempiere alle funzioni presso gli uffici elettorali, ivi compresi i rappresentanti di lista, dei partiti o dei promotori del referendum, hanno diritto di assentarsi dal lavoro per tutto il periodo corrispondente alla durata delle operazioni di competenza.

Le giornate di assenza dovranno essere retribuite dal datore di lavoro come se il dipendente avesse normalmente svolto la propria prestazione in azienda.

Per i giorni festivi, o comunque non lavorativi, ricompresi nel periodo di svolgimento

delle operazioni elettorali, i dipendenti assenti  avranno  diritto al pagamento delle specifiche quote retributive, in aggiunta alla ordinaria retribuzione mensile, ovvero a riposi compensativi da godersi subito dopo la fine delle operazioni al seggio. E’ quanto avviene, ad esempio, per la giornata della domenica.

I dipendenti interessati, dovranno preventivamente comunicare al datore di lavoro le assenze per permessi elettorali, mediante l’esibizione del certificato di chiamata.

Successivamente, i lavoratori dovranno presentare in azienda la documentazione giustificativa firmata dal presidente del seggio e riportante l’orario di inizio e fine delle operazioni.

Valerio Pollastrini

Amianto – Il datore di lavoro è responsabile della malattia del dipendente

Nella sentenza n.1477 del 24 gennaio 2014 la Corte di Cassazione ha riepilogato i profili della responsabilità dell’imprenditore per la malattia professionale patita dal dipendente in seguito alla diretta esposizione alle polveri di amianto durante il rapporto di lavoro.

Il caso di specie è quello di un lavoratore risultato affetto da fibrosi polmonare progressiva interstiziale conseguente ad inalazione di fibre di amianto.

Il Tribunale di Bergamo aveva condannato il datore di lavoro  al risarcimento del danno biologico e morale in base ai risultati della CTU che, attribuendo al ricorrente una percentuale di invalidità del 5%, aveva affermato l'eziopatologia professionale della malattia e il nesso causale con l'omissione colposa di misure di sicurezza idonee a prevenire e diminuire le polveri di amianto, presenti sul luogo di lavoro in ragione dell'attività produttiva svolta dalla società convenuta.

Il Giudice di primo grado aveva però respinto la domanda del lavoratore  relativa al danno da ipoacusia, non essendo stato possibile enucleare all'interno del danno complessivo la percentuale attribuibile alla convenuta.

La società aveva proposto appello avverso detta sentenza,  sottolineando la sensibilità individuale alle polveri d'amianto, la non prevedibilità del danno e l'assenza quindi di una violazione dell'art. 2087 c.c., essendo gli impianti a norma secondo le conoscenze dell'epoca.

L'appellante contestava comunque la quantificazione del danno effettuata secondo le cosiddette tabelle di Milano, in luogo dell'applicazione delle tabelle INAIL comprendenti anche il danno biologico.

Il lavoratore aveva invece proposto Appello incidentale sul mancato riconoscimento del danno da ipoacusia, in quanto, essendo stata riconosciuta la genesi professionale della menomazione e la rumorosità dell'ambiente di lavoro, sarebbe stato necessario procedere ad nuova CTU per enucleare il danno riconducibile all'esposizione presso l’azienda.

Rinnovata la CTU audiologica, la Corte di Appello di Brescia aveva respinto il ricorso dell’azienda e, in accoglimento di quello incidentale, aveva condannato la società al risarcimento del danno biologico differenziale e morale da ipoacusia professionale nella misura complessiva di 8.087,33 €, oltre accessori.

In sintesi, la Corte territoriale aveva ritenuto provata la condotta colposa della società, consistente  nell’omessa predisposizione delle misure di sicurezza finalizzate alla riduzione della polverosità dell'ambiente di lavoro, nella mancata adozione di procedimenti di lavorazione idonei a limitare le operazioni suscettibili di creare ulteriore polverosità e nella mancata istruzione  dei dipendenti sulla pericolosità delle lavorazioni a cui erano addetti e sulle cautele da osservare.

A proposito della supposta interruzione del nesso causale fra condotta ed evento, il giudicante aveva ritenuto inoltre non provate dalla società le dedotte circostanze legate all'esistenza di una predisposizione individuale a contrarre la malattia e alla possibilità di contrarla anche per l'inalazione di dosi minime di polveri.

Attesa la differenza ontologica tra l'indennizzo erogato dall'INAIL  ed il risarcimento del danno in materia di responsabilità civile, la Corte del merito aveva rilevato che, comunque, doveva essere riconosciuto al lavoratore il danno biologico da invalidità permanente, escluso dalla sfera dell'assicurazione INAIL, applicando a tal fine  i criteri equitativi milanesi in uso anche nel distretto di Brescia.

Quanto all’Appello incidentale proposto dal lavoratore, la Corte territoriale aveva rilevato che  la CTU espletata in sede di gravame avesse confermato sia la otolesività della lavorazione, sia il certo nesso causale tra la stessa e una quota del danno da ipoacusia professionale, pari complessivamente al 9% . Nella fattispecie in oggetto, pertanto,  doveva senz'altro ritenersi sussistente la concausa della invalidità in termini di rilevante probabilità, senza che la maggiore o minore incidenza nel raffronto con le altre concause di origine professionale ed extraprofessionale avessero rilievo.

Contro la sentenza di Appello, la società aveva proposto ricorso per Cassazione, deducendo la mancata  prova del nesso causale tra l’esposizione all'amianto e l'evento lesivo, in assenza elementi utili ad accertare se  il lavoratore avesse contratto le placche pleuriche a causa della sua elevata suscettibilità individuale, certamente non addebitabile al datore di lavoro,  ovvero, successivamente, per effetto delle dosi progressivamente accumulate.

Secondo la ricorrente, le conoscenze derivanti dalla epidemiologia riguardano la causalità generale, ma nulla dicono sulla causalità individuale e, pertanto, non sarebbe consentito dedurre automaticamente dal coefficiente di probabilità espresso dalla legge statistica la conferma o meno dell'esistenza del nesso causale, dovendo il giudice verificarne la validità nel caso concreto.

La società aveva poi lamentato che,  all'epoca in cui risaliva l'esposizione all'amianto del lavoratore, fosse  impossibile prevenire le placche pleuriche. Fino alla seconda metà degli anni '80, infatti, sia le maschere antipolvere individuali, che i filtri per gli impianti di aspirazione fissi e mobili, erano   completamente inefficaci, in quanto sicuramente permeabili alle fibre di diametro submicronico.

Le adeguate protezioni verso le fibre ultrafini, costituite dalle  maschere di gomma semifacciali con filtri assoluti, erano state ufficialmente prescritte in Italia con il Decreto del 6 settembre 1994.

Il datore di lavoro aveva poi contestato alla Corte del merito l’affermazione in base alla quale la responsabilità dell’azienda sarebbe stata provata della mancata predisposizione dei sistemi di aspirazione o riduzione delle polveri che avevano causato l'insorgenza delle placche pleuriche.

Secondo la tesi ricorrente, all’epoca dei fatti le acquisizioni tecniche di causa escludevano invece  l'esistenza di rimedi preventivi adeguati.

La pronuncia della Cassazione
Investita della questione, la Suprema Corte ha innanzitutto rilevato l’inammissibilità dell’ultima doglianza aziendale, in quanto  priva del quesito di diritto che, ai sensi dell’art. 366-bis c.p.c., deve essere applicato nella specie ratione temporis, trattandosi di ricorso contro una sentenza pubblicata successivamente all'entrata in vigore del D.Lgs. n.40 del 2006 ed anteriormente all'entrata in vigore della Legge n.69 del 2009 (1).

La Cassazione ha poi respinto, perché infondate, le altre deduzioni del ricorrente, premettendo  che, nella specie, trova applicazione la regola contenuta nell'art.41 cod. pen., in base al quale il rapporto causale tra evento e danno è governato dal principio dell'equivalenza delle condizioni, che riconosce l'efficienza causale ad ogni antecedente che abbia contribuito, anche in maniera indiretta e remota, alla produzione dell'evento, salvo il temperamento previsto nello stesso art. 41 cod. pen., in forza del quale il nesso eziologico è interrotto dalla sopravvenienza di un fattore sufficiente da solo a produrre l'evento, tale da far degradare le cause antecedenti a semplici occasioni (2).

Del resto  è stato costantemente affermato  (3) che, secondo il criterio, ispirato alla regola della normalità causale, ossia del "più probabile che non",  la prova del nesso causale consiste anche nella relazione probabilistica concreta tra comportamento ed evento dannoso.

In particolare,  è stato inoltre precisato (4)  che nel caso di malattia ad eziologia multifattoriale, il nesso di causalità relativo all'origine professionale della patologia non può essere oggetto di semplici presunzioni tratte da ipotesi tecniche teoricamente possibili, ma necessita di una concreta e specifica dimostrazione.  Se questa può essere fornita anche in termini di probabilità sulla base delle particolarità della fattispecie, è pur sempre  necessario  che si tratti di "probabilità qualificata", la cui attestazione deve risultare da ulteriori elementi (come ad esempio i dati epidemiologici), idonei a tradurre la conclusione probabilistica in certezza giudiziale.

Nel caso in commento la Corte territoriale,  applicando i principi sopra richiamati, aveva legittimamente  ritenuto provato, sulla base delle valutazioni e delle conclusioni della CTU, il nesso causale tra l'esposizione professionale all'amianto e la genesi della patologia polmonare contratta.

In particolare, il Giudice di Appello non si era limitato a fare proprie  le valutazioni epidemiologiche della CTU, ma, in base alla prova testimoniale, aveva inoltre accertato che il dipendente  fosse stato esposto al rischio di inalazione di fibre di amianto in modo massiccio, in un ambiente privo delle necessarie misure di sicurezza all'epoca già conosciute, quali la segregazione degli ambienti polverosi, l'installazione di impianti di aspirazione adeguati e l'abbattimento delle polveri con l'umidificazione.

Parimenti infondata, secondo la Suprema Corte, la censura riguardante l'asserita non prevedibilità, all'epoca, dell'evento dannoso.

Come è stato ripetutamente affermato dalla Cassazione (5), la responsabilità del datore di lavoro di cui al citato art. 2087 è di natura contrattuale, pertanto, ai fini del relativo accertamento, incombe sul lavoratore che lamenti di aver subito un danno alla salute, l'onere di provare l'esistenza di tale danno, come pure la nocività dell'ambiente di lavoro, nonché il nesso tra l'uno e l'altro elemento, mentre grava sul datore di lavoro - una volta che il lavoratore abbia provato le predette circostanze - l'onere di provare di aver fatto tutto il possibile per evitare il danno, ovvero di aver adottato tutte le cautele necessarie per impedire il suo verificarsi.

In sostanza, risulta pacifico il principio più volte affermato (6), in base al quale  la responsabilità dell'imprenditore per la mancata adozione delle misure idonee a tutelare l'integrità fisica del lavoratore discende o da norme specifiche o, quando queste non siano rinvenibili, dalla norma di ordine generale di cui all'art. 2087 c.c., che impone al datore  l'obbligo di adottare tutte quelle misure che, secondo la particolarità delle prestazioni svolte dai dipendenti, si rendano necessarie a tutelarne l'integrità fisica.

Con riguardo all'inalazione di polveri di amianto, la Cassazione aveva già avuto modo di precisare (7) che, ai sensi dell’art.2087 cod.civ., la responsabilità  dell’imprenditore è circoscritta alla violazione di regole d'esperienza o di regole tecniche preesistenti e collaudate, sanzionando anche, alla luce delle garanzie costituzionali del lavoratore, l'omessa predisposizione di tutte le misure e cautele atte a preservare l'integrità psicofisica del dipendente nel luogo di lavoro, tenuto conto della concreta realtà aziendale e della maggiore o minore possibilità di indagare sull'esistenza di fattori di rischio in un determinato momento storico.

Pertanto, qualora risulti accertato che il danno sia stato causato dalla nocività dell'attività lavorativa per esposizione all'amianto, è onere del datore di lavoro provare di avere adottato, pur in difetto di una specifica disposizione preventiva, le misure generiche di prudenza necessarie alla tutela della salute dal rischio espositivo secondo le conoscenze del tempo di insorgenza della malattia.

Del resto, è stato pure chiarito (8) che,  quand’anche all'epoca non fossero state ancora emanate specifiche norme per il trattamento dei materiali contenenti amianto (9),  senz'altro si imponeva l'adozione di misure idonee a ridurre il rischio connaturale all'impiego di tali materiali, in relazione alla norma di chiusura di cui all'art. 2087 c.c. ed all'art.21 del D.P.R. n.303 del 19 marzo 1956, ove si stabilisce che nei lavori che diano normalmente luogo alla formazione di polveri di qualunque specie, il datore di lavoro è tenuto ad adottare provvedimenti atti ad impedirne o ridurne, per quanto è possibile, lo sviluppo e la diffusione nell'ambiente di lavoro, soggiungendo che "le misure da adottare a tal fine devono tenere conto della natura delle polveri e della loro concentrazione", cioè devono avere caratteristiche adeguate alla pericolosità delle polveri.

Orbene, la sentenza impugnata, dopo aver premesso che la normativa del 1956 già contemplasse alcune misure specifiche (10), in base alle risultanze della prova testimoniale, aveva accertato che tali misure,  idonee ad abbattere significativamente la polverosità e quindi anche ad evitare l'insorgenza della malattia, non erano state adottate in azienda. Al contrario, il reparto di miscelazione, pur separato dagli altri, non era segregato e per molti anni  non erano stati predisposti aspiratori.

Diverse, inoltre, erano risultate  le mansioni implicanti l'esposizione diretta alla polvere non inumidita, comprese quelle di pulizia di macchine dal materiale secco, dello spostamento dei sacchi di tela contenenti la polvere di amianto, del caricamento dei miscelatori  e della manipolazione degli impasti.

Queste, dunque, erano state le ragioni che avevano indotto la Corte di merito a ritenere provata la condotta colposa omissiva della società sotto il profilo della mancata riduzione della polverosità dell'ambiente di lavoro, della mancata adozione di procedimenti di lavorazione idonei a limitare le operazioni suscettibili di creare ulteriore polverosità e della mancata istruzione adeguata dei dipendenti in ordine alla pericolosità delle lavorazioni a cui erano addetti e alle cautele da osservare.

Tali omissioni erano state ritenute rilevanti, a prescindere dalle questioni relative alla dotazione di mascherine e alle loro caratteristiche tecniche all'epoca dei fatti.

Ritenendo la decisione impugnata conforme ai principi sopra richiamati e all'indirizzo consolidato in materia, la Corte di Cassazione ha concluso rigettando il ricorso, con conseguente condanna dell’azienda al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate in 3.000,00 € per compensi professionali, 100,00 € per esborsi,
oltre accessori di legge.

Valerio Pollastrini

 

(1)   - Cass., Sentenza  n.26364 del 16 dicembre 2009; Cass., Sentenza  n.15718 del 18 luglio 2011;
(2)   - Cass., Sentenza   n.17959 del 9 settembre 2005, Cass., Sentenza  n.6722 del 3 maggio 2003;
(3)   - Cass., Sentenza n.975 del 16 gennaio 2009; Cass., Sentenza  n.21619 del 16 ottobre 2007;  Cass., Sentenza  , n.10741 dell’11 maggio 2009; Cass., Sentenza  n.16123 dell’8 luglio 2010; Cass., Sentenza  n.15991 del 21 luglio 2011;
(4)   - Cass., Sentenza n.9057 del 12 maggio 2004;
(5)   - Cass., Sentenza  n.3788 del 17 febbraio 2009;  Cass., Sentenza  n.3786 del 17 febbraio 2009;  Cass., Sentenza  n.4840 del 7 marzo 2006;  Cass., Sentenza   n.16881 del  24 luglio 2006; Cass., Sentenza  n.9856 del 6 luglio 2002;  Cass., Sentenza n.1886 del 18 febbraio 2000;
(6)   - Cass., Sentenza  n.6377 del 19 aprile 2003;  Cass., Sentenza n.16645 del 1° ottobre 2003;
(7)   - Cass., Sentenza n.13956 del 3 agosto 2012; Cass., Sentenza n.2491 del 1° febbraio 2008; Cass., Sentenza  n.644 del 14 gennaio 2005;
(8)   - Cass., Sentenza n.14010 del 30 giugno 2005;
(9)   - Introdotte con il  D.P.R. n.15 del 10 febbraio 1982;
(10)                      - Quali la segregazione degli ambienti polverosi, l'installazione di impianti di aspirazione adeguati e l'abbattimento delle polveri con l'umidificazione;

Il primo preavviso di Durc interno negativo verrà inviato alle aziende il 15 maggio 2014

Con il Messaggio n.4069 del 14 aprile 2014 l’Inps ha annunciato il riavvio della gestione del DURC interno, alla cui regolarità sono subordinati i benefici normativi e contributivi, previsti dalla normativa in materia di lavoro e legislazione sociale.

 
Rilevate alcune difficoltà nella fase di avvio del sistema delineato dal precedente Messaggio n.2889/2014, il primo “preavviso di DURC interno negativo” verrà inviato il 15 maggio 2014.

Tale primo preavviso sarà inviato esclusivamente alle aziende per le quali risultino delle irregolarità incidenti sul diritto al riconoscimento dei benefici, ovvero per le quali sono state emesse note di rettifica con causale “addebito art. 1, comma 1175, della legge 27 dicembre 2006, n. 296”.

Nella nota l’Istituto ha riepilogato le regole di attribuzione della regolarità in presenza di inadempienze in fase amministrativa sugli archivi del Recupero Crediti (EAP e NRC).

Di norma la presenza di inadempienze con carico contabile non definite o non definibili determina l’attribuzione dell’irregolarità (semaforo rosso) all’azienda interessata, tranne che nei seguenti casi:

-  Inadempienza con CSL che indica la presenza di un contenzioso amministrativo in corso;

- Inadempienze in attesa di abbandono totale;

- Inadempienza con CSL 8314, 8315 e 9112 per la quale, in sede di apposizione del CSL su NRC, è stato indicato SI nell’apposito campo istituito per determinare la regolarità ai fini DURC (vedi punto B del messaggio 003069/2014);

- Inadempienze che rientrano in una rateazione in corso di pagamento.

L’Inps ha inoltre informato che le note di rettifica già calcolate per il 15 maggio saranno ricalcolate al 15 giugno 2014 ed inviate alle aziende insieme a quelle programmate per l’invio alla stessa data del 15 giugno secondo il messaggio 2889/2014.

Resta ferma l’emissione e l’invio delle restanti note di rettifica al 15 settembre 2014.

Valerio Pollastrini

Bonus di 80 euro – Le ultime istruzioni

Con l’entrata in vigore del D.L. n.66/2014, i lavoratori subordinati con un reddito da lavoro dipendente e assimilato compreso tra gli 8mila ed i 26mila euro, a far data dalle competenze di maggio percepiranno il c.d. bonus di 80,00 €.

Il bonus sarà erogato  automaticamente dai datori di lavoro sostituti d'imposta.

Per Colf e Badanti, invece, lo sgravio fiscale potrà essere richiesto direttamente dagli aventi diritto  in sede di presentazione della dichiarazione dei redditi 2014.

Per fruire del credito, dovranno utilizzare la dichiarazione dei redditi anche coloro che, pur avendone diritto, non lo abbiano ricevuto a causa della cessazione del rapporto di lavoro intervenuta prima del mese di maggio 2014.

 
Nella Circolare n.8/2014 l’Agenzia delle Entrate ha chiarito che, ai fini del diritto al bonus, si debba far riferimento al reddito complessivo al netto del reddito dell'abitazione principale e delle relative pertinenze.

I redditi percepiti, tuttavia, dovranno produrre un'imposta lorda residuale dopo l'applicazione della detrazione per reddito di lavoro dipendente. Dal beneficio resteranno fuori i soggetti incapienti, ma non quando l'imposta negativa sia dovuta ad altre detrazioni, come, per esempio, quelle per carichi di famiglia.

Le aziende che sono solite pagare gli stipendi nel mese successivo a quello di riferimento potranno corrispondere il bonus i primi di giugno unitamente alle competenze di maggio.

Per la verifica dell'incapienza debbono essere applicate le  detrazioni in vigore dal 1° gennaio 2014. Conseguentemente, risulteranno esclusi dal bonus coloro le cui retribuzioni e/o compensi siano inferiori ad 8.145,32 euro.

Nel caso in cui l'imposta risulti non dovuta in seguito all’applicazione di altre detrazioni, come quelle per i familiari a carico, il credito spetterà ugualmente.

Il bonus spetterà nella misura totale di 640,00 € per i  beneficiari che lavoreranno l'intero anno e sarà suddiviso in otto quote mensili da maggio a dicembre 2014.

Per i lavoratori assunti e cessati in corso d'anno, invece, il credito verrà rapportato alla minore durata del rapporto di lavoro sulla base del numero di giorni lavorati nell'anno.

Sia per verificare le condizioni per la spettanza che per calcolare l'importo del credito, i datori di lavoro utilizzeranno le  informazioni già in loro possesso. Il reddito annuo del lavoratore, pertanto, dovrà essere presunto attraverso una proiezione che tenga conto di tutte le somme erogate nell'anno dal sostituto d'imposta.

Il diritto al bonus dovrà essere verificato mensilmente ed il datore di lavoro potrà recuperare  le somme erogate ai beneficiari del provvedimento in commento operandone la compensazione con le ritenute fiscali disponibili nel mese, comprese le addizionali Irpef, l'imposta sostitutiva calcolata sui premi di produttività e il contributo di solidarietà.

Nel caso in cui le  citate ritenute risultino insufficienti, per compensare il bonus erogato, il datore di lavoro potrà utilizzare anche i contributi previdenziali.

Il sostituto d’imposta sarà chiamato ad indicare nel Cud e nel 770 il credito riconosciuto e la compensazione eseguita, secondo modalità che verranno definite prossimamente.

Poiché il sostituto d'imposta riconoscerà il bonus basandosi sui dati in suo possesso, spetterà al beneficiario comunicare tutte le informazioni da cui possa evidenziarsi il venir meno del diritto al credito affinché si possa procedere a recuperare le somme corrisposte ma non dovute.

Tale recupero potrà essere effettuato nei periodi di paga seguenti a quello in cui sono state fornite le notizie aggiuntive e comunque in sede di conguaglio fiscale di fine anno o di fine rapporto.

L'Agenzia ha specificato al proposito che il credito fruito ma non spettante, non recuperato dal sostituto, dovrà essere restituito dal contribuente attraverso la dichiarazione dei redditi con modello 730 o Unico.

La Circolare ha infine ricordato che il bonus,  esente da contributi e imposte,   non incide sul calcolo dell'Irap delle aziende.

Valerio Pollastrini

domenica 27 aprile 2014

Assegno di mantenimento dovuto anche se l’obbligato è stato licenziato

Nella sentenza n.17623 del 18 marzo-22 aprile 2014 la Corte di Cassazione ha confermato che la perdita del posto di lavoro non esonera il soggetto obbligato dalla corresponsione dell’assegno di mantenimento in favore del coniuge separato e del figlio minorenne.

Nel caso di specie,   la Corte di Appello di Salerno,  confermando quanto disposto dal Tribunale di Sala Consilina, aveva ribadito  la condanna di un uomo, rispettivamente alla pena di due mesi di reclusione, a  200,00 € di multa ed al risarcimento dei danni per la violazione degli obblighi di assistenza familiare nei confronti della moglie separata e del figlio minorenne.

La Corte territoriale, in particolare, aveva respinto la tesi dell'insussistenza del reato avanzata dall’imputato per la sua  impossibilità di  far fronte agli impegni familiari in quanto privo di redditi, in seguito alla cessazione del rapporto di lavoro con l'azienda agricola per la quale svolgeva le proprie prestazioni.

L’uomo aveva proposto ricorso in Cassazione contro la sentenza di Appello, lamentando che, ai fini della sentenza del merito, non fosse stata considerata l’insussistenza dello stato di bisogno dell’ex coniuge  beneficiario, percettore di reddito da lavoro e proprietario di beni immobili.

Investita della questione, la Cassazione ha dichiarato inammissibile la domanda dopo aver rilevato la genericità del ricorso.

L'atto di impugnazione, infatti, si limitava ad  una generale critica della sentenza di Appello, corredata da citazioni giurisprudenziali sulla normativa di riferimento, nonché dal richiamo a vari istituti penali di carattere generale ed a precetti di natura costituzionale.

Il ricorrente, sostenendo che la responsabilità penale non poteva essere affermata, in quanto le parti lese potevano godere di adeguati mezzi economici che, di fatto, li ponevano al di fuori dello stato di bisogno, aveva sostanzialmente proposto una domanda di solo merito.

La Cassazione ha ritenuto corretta la valutazione compiuta dal Giudice di Appello
sulle richiamate doglianze, respingendo l'argomento difensivo dell'assenza incolpevole di redditi da parte dell'imputato, resosi  volontariamente inadempiente all'obbligo di versamento impostogli nella fase di separazione  dalla coniuge, essendosi poco dopo licenziato, senza motivo plausibile alcuno, dall'azienda agricola commerciale di famiglia presso cui prestava attività lavorativa.

Ritenendo che la motivazione della sentenza impugnata avesse  sufficientemente fornito le ragioni poste a sostegno della decisione,  la Suprema Corte ha conseguentemente escluso che il riesame del merito potesse rientrare tra le sue competenze.

Valerio Pollastrini

Superamento dei limiti di legge per l’accesso ai benefici previdenziali per l’esposizione ultradecennale alle fibre di amianto

Nella sentenza n.8453 del 10 aprile 2014 la Corte di Cassazione ha compiuto un’esaustiva disamina delle disposizioni di legge succedutesi nel tempo per il riconoscimento dei particolari benefici pensionistici concessi ai dipendenti esposti per un periodo  ultradecennale alle fibre di amianto.

Nel caso di specie, un lavoratore si era rivolto al Tribunale di Sulmona per conseguire l’accertamento nei confronti dell’Inps, della propria esposizione ultradecennale alle fibre di amianto in misura superiore ai limiti di legge ed il riconoscimento dei benefici pensionistici di cui all’art.13, comma 8, della Legge n.257/1992.

Il Giudice adito aveva accolto parzialmente la domanda, riconoscendo il diritto del ricorrente alla rivalutazione con il coefficiente di 1.25 dell’anzianità contributiva ai soli fini della determinazione dell’importo delle prestazioni pensionistiche, avendo egli presentato domanda amministrativa all’Inail successivamente al 2 ottobre 2003 ed in ogni caso, non avendo comunque la possibilità di maturare, neanche con il riconoscimento dei benefici previdenziali ex art.13 della Legge n.257/92, i requisiti per il pensionamento.

Dette statuizioni, erano state confermate dalla Corte di Appello di L’Aquila, che aveva respinto i motivi di gravame con i quali il lavoratore aveva lamentato l’applicazione della disciplina meno favorevole di cui all’art. 47, comma 1, del  D.L. n.269/03, in luogo della disciplina previgente di cui alla Legge n.257/92, benché la sua esposizione qualificata ultradecennale all’amianto fosse stata riconosciuta.

La Corte territoriale, aveva osservato come la norma, in base alla quale per i lavoratori che abbiano già maturato alla data del 2 ottobre 2003 il diritto al conseguimento dei benefici previdenziali di cui all’art. 13, comma 8, della  Legge n.257/92 sono fatte salve le disposizioni previgenti alla medesima data, debba essere interpretata nel senso che, per “maturazione” del diritto al beneficio, si intende la maturazione del diritto a pensione.

Il giudicante aveva quindi rilevato come la citata disposizione trovasse applicazione anche in favore di coloro che avessero avanzato domanda di riconoscimento all’Inail o avessero ottenuto sentenze favorevoli per cause avviate entro la stessa data.

La Corte del merito aveva però negato il regime normativo più favorevole invocato dal ricorrente, in quanto il lavoratore non aveva ancora maturato il diritto a pensione, né aveva avviato procedimenti amministrativi o conseguito pronunce di riconoscimento del diritto anteriormente al 2 ottobre 2003.

Avverso tale decisione, il lavoratore aveva proposto ricorso per Cassazione, contestando l’interpretazione della normativa di riferimento accolta dalla Corte territoriale.

Secondo la tesi del ricorrente, la richiamata disposizione di legge, nel riferirsi a tutti coloro che avessero maturato, non già il diritto alla pensione, ma “il diritto al conseguimento” degli specifici “benefici previdenziali” di cui alla legge n.257/92, vuol fare salva l’applicazione della disciplina previgente per tutti coloro che, rientrando nelle previsioni di quest’ultima, al momento dell’entrata in vigore della novella fossero risultati in possesso di almeno dieci anni di esposizione all’amianto, per attività soggette alla relativa assicurazione obbligatoria gestita dall’Inail. Condizione alla quale era condizionato il riconoscimento del beneficio previdenziale, fossero o meno i soggetti richiedenti già in pensione ovvero in procinto di andarvi.

In base a questa lettura,  salve le diverse ipotesi specificamente previste, come quella dell’avvenuta presentazione della domanda di rinascimento all’Inail entro il 2 ottobre 2003 o il conseguimento di sentenze favorevoli per cause avviate entro la stessa data, dall’applicazione delle disposizioni previgenti resterebbero esclusi solo quei lavoratori che, pur essendo stati esposti all’amianto per un periodo almeno decennale prima del 2 ottobre 2003, non avevano titolo a conseguite i benefici sulla base della legge n.257/92, in quanto le relative attività non erano coperte dall’assicurazione obbligatoria Inail.

Sempre secondo il ricorrente, l’interpretazione accolta dalla Corte territoriale condurrebbe all’applicazione della nuova disciplina a lavoratori già esposti all’amianto, per periodi ultradecennali, per attività soggette all’assicurazione Inail, il che ne postulerebbe un effetto retroattivo.

La pronuncia della Cassazione
Per dirimere la controversia, la Suprema Corte ha ritenuto opportuno riepilogare il contenuto delle  previsioni legislative che si sono succedute nel tempo per disciplinare la fattispecie.

L’art. 13, comma 8, della Legge n.257 del 27 marzo 1992, stabilì che “Per i lavoratori che siano stati esposti all’amianto per un periodo superiore a dieci anni, l’intero periodo lavorativo soggetto all’assicurazione obbligatoria contro le malattie professionali derivanti dall’esposizione all’amianto, gestita dall’INAIL, è moltiplicato, ai fini delle prestazioni pensionistiche, per il coefficiente di 1,5”.

L’art.47 del D.L. n.269 del 30 settembre 2003 (1) previde quanto segue:

-         “1.  A decorrere dal 1° ottobre 2003, il coefficiente stabilito dall’articolo 13, comma 8, della legge n.251 del 21 marzo 1992, è ridotto da 1,5 a 1,25. Con la stessa decorrenza, il predetto coefficiente moltiplicatore si applica ai soli fini della determinazione dell’ importo delle prestazioni pensionistiche e non della maturazione del diritto di accesso alle medesime”.

-         “2. Le disposizioni di cui al comma 1 si applicano anche ai lavoratori a cui sono state rilasciate dall’INAIL le certificazioni relative all’esposizione all’amianto sulla base degli atti d’indirizzo emanati sulla materia dal Ministero del lavoro e delle politiche sociali antecedentemente alla data di entrata in vigore del presente decreto”.

-         “3. Con la stessa decorrenza prevista al comma 1, i benefici di cui al comma 1, sono concessi esclusivamente ai lavoratori, che, per un periodo non inferiore a dieci anni, sono stati esposti all’amianto in concentrazione media annua non inferiore a 100 fibre/litro come valore medio su otto ore al giorno. I predetti limiti non si applicano ai lavoratori per i quali sia stata accertata una malattia professionale a causa dell’esposizione all’amianto”.

 
-         “4. La sussistenza e la durata dell’esposizione all’amianto di cui al comma 3 sono accertate e certificate dall’INAIL”.

-         “5. I lavoratori che intendano ottenere il riconoscimento dei benefici di cui al comma 1, compresi quelli a cui è stata rilasciata certificazione dall’INAIL prima del 1° ottobre 2003, devono presentare domanda alla Sede INAIL di residenza entro 180 giorni dalla data di pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale del decreto interministeriale di cui al comma 6, a pena di decadenza del diritto agli stessi benefici”.

-         “6-bis. Sono comunque fatte salve le previgenti disposizioni per i lavoratori che abbiano già maturato, alla data di entrata in vigore del presente decreto, il diritto al trattamento pensionistico anche in base ai benefici previdenziali di cui all’articolo 13, comma 8, della Legge n.257 del 21 marzo 1992,  nonché coloro che alla data di entrata in vigore del presente decreto, fruiscano dei trattamenti di mobilità, ovvero che abbiano definito la risoluzione del rapporto di lavoro in relazione alla domanda di pensionamento”.

-         6-ter. “I soggetti cui sono stati estesi, sulla base del presente articolo, i benefici previdenziali di cui alla legge n.251 del 21 marzo 1992, come rideterminati sulla base del presente articolo, qualora siano destinatari di benefici previdenziali che comportino , rispetto ai regimi pensionistici di appartenenza, l’anticipazione dell’accesso al pensionamento, ovvero l’aumento dell’anzianità contributiva, hanno facoltà di optare tra i predetti benefici e quelli previsti dal presente articolo. Ai medesimi soggetti non si applicano i benefici di cui al presente articolo, qualora abbiano già usufruito dei predetti aumenti o anticipazioni alla data di entrata in vigore del presente decreto”.

La Cassazione ha  precisato che i predetti commi 6-bis e 6-ter vennero introdotti in sede di conversione in legge del Decreto e che il Decreto Ministeriale attuativo  venne emanato il 27 ottobre 2004.

L’art.3, comma 132, della Legge n.350 del 24 dicembre 2003 previde poi che:

-         In favore dei lavoratori che abbiano già maturato, alla data del 2 ottobre 2003, il diritto al conseguimento dei benefici previdenziali di cui all’articolo 13, comma 8, della Legge n.257 del 21 marzo 1992,  e successive modificazioni, sono fatte salve le disposizioni previgenti alla medesima data del 2 ottobre 2003. La disposizione di cui al primo periodo si applica anche a coloro che hanno avanzato domanda di riconoscimento all’INAIL o che ottengono sentenze favorevoli per cause avviate entro la stessa data. Restano valide le certificazioni già rilasciate dall’INAIL”.

Per quanto qui specificamente interessa, l’art.1, comma 2, del Decreto Ministeriale attuativo del 27 ottobre 2004, stabilì che:
 
-         Ai lavoratori che sono stati esposti all’amianto per periodi lavorativi soggetti all’assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali, gestita dall’INAIL, che abbiano già maturato, alla data del 2 ottobre 2003, il diritto al conseguimento dei benefici previdenziali di cui all’articolo 13, comma 8, della Legge n.251 del 21 marzo 1992,  e successive modificazioni, si applica la disciplina previgente alla medesima data, fermo restando, qualora non abbiano già provveduto, l’obbligo di presentazione della domanda di cui all’art. 3 entro il termine di 180 giorni, a pena di decadenza, dalla data di entrata in vigore del presente decreto”.

L’art. 1, comma 20, della Legge n.247 del  24 dicembre 2007 ha poi disposto che:

-          Ai fini del conseguimento dei benefici previdenziali di cui all’articolo 13, comma 8, della Legge n.257 del  27 marzo 1992,  e successive modificazioni, sono valide le certificazioni rilasciate dall’Istituto nazionale per l’assicurazione contro gli infortuni sul lavoro (INAIL) ai lavoratori che abbiano presentato domanda al predetto Istituto entro il 15 giugno 2005, per periodi di attività lavorativa svolta con esposizione all’amianto fino all’avvio dell’azione di bonifica e, comunque, non oltre il 2 ottobre 2003, nelle aziende interessate dagli atti di indirizzo già emanati in materia dal Ministero del lavoro e della previdenza sociale”.

La Cassazione ha ricordato che la finalità della  Legge n. 257/1992 (2)  era quella di favorire la cessazione dell’impiego dell’amianto e tra le misure adottate per raggiungere tale obiettivo si inserisce il ricordato art. 13, comma 8, emanato con il fine precipuo di favorire l’esodo dal mondo del lavoro del maggior numero di lavoratori che avessero subito, sul piano occupazionale, le conseguenze della suddetta dismissione.

Con la riforma del 2003, tale misura ha subito una trasformazione radicale, dovuta (3), ad un duplice ordine di ragioni: “Da un lato, infatti, è stato logico presumere che, a distanza di tanti anni dall’entrata in vigore della legge n.257 del 1992, il risultato della dismissione delle lavorazioni dell’amianto, comportanti esposizione dei lavoratori alle sue polveri, fosse stato ormai conseguito; dall’altro, è venuto emergendo, dalle indagini epidemiologiche e dai progressi della scienza medica, che gli effetti dannosi della suddetta esposizione possono prodursi anche a lunga distanza di tempo e che non era, quindi, irragionevole attribuire un beneficio previdenziale a coloro che a siffatto rischio erano stati esposti, anche se le relative attività non erano obbligatoriamente assoggettate all’assicurazione INAIL”.

La nuova normativa, pertanto, ha previsto che il beneficio non valesse per il raggiungimento della anzianità contributiva, ma fosse attribuito, in presenza delle altre condizioni di legge, a coloro che avessero maturato il diritto al trattamento di quiescenza secondo gli ordinari criteri di calcolo, per la sola quantificazione della pensione.

La riduzione del coefficiente di rivalutazione da 1,50 a 1,25 è dovuta quindi ad una nuova valutazione delle esigenze di bilancio in conseguenza  dell’allargamento della platea degli aventi diritto.

In sintesi, rispetto agli incentivi  originariamente previsti dell’art. 13, comma 8, della Legge n.257/1992, le previsioni della riforma hanno attribuito  un beneficio ridotto a tutti i lavoratori che, nel periodo considerato, siano stati esposti all’amianto (nella concentrazione media annua indicata), indipendentemente dal fatto che l’attività esercitata fosse assoggettata all’assicurazione Inail contro le malattie professionali.

La Suprema Corte ha rilevato come la questione sollevata investa la corretta interpretazione dell’art.3, comma 132, della legge n.350/2003 e dell’art.1, comma 2, del D.M del 27 ottobre 2004, nella parte in cui sanciscono l’applicabilità della previdente disciplina – sull’utilizzo del coefficiente moltiplicatore 1,5 tanto ai fini tanto dell’accesso a pensione, quanto a quello della relativa liquidazione -  nei confronti di coloro che avessero maturato “il diritto al conseguimento dei benefici previdenziali dì cui all’art.13, comma 8, della Legge n.257 del 21 marzo 1992” alla data del 2 ottobre 2003.

Ai fini dell’anzidetta indagine, la Cassazione ha precisato che la disposizione di cui all’art.1, comma 20, della Legge n.247/07, che ha  introdotto una deroga alla disciplina generale per i lavoratori che abbiano prestato la propria attività nelle aziende interessate dagli atti di indirizzo già emanati in materia dal Ministero del lavoro e della previdenza sociale, risulta priva di rilevanza, in quanto riferita ad una situazione soggettiva che non ricorre nel caso di specie.

L’opzione ermeneutica prospettata dal ricorrente è basata essenzialmente sulla differenza lessicale tra il comma 6-bis dell’art.47 del D.L. n.269/2003 (“diritto al trattamento pensionistico”) ed il comma 132 dell’art.3 della Legge n.350/2003 (“diritto al conseguimento dei benefici previdenziali di cui all’articolo 13, comma 8, della legge 21 marzo 1992, n. 251”), desumendone che la seconda locuzione esprimerebbe un diverso concetto  e, in particolare, che vorrebbe far salva l’applicazione della disciplina previgente per tutti coloro che, rientrando nelle previsioni di quest’ultima, al momento dell’entrata in vigore della novella fossero risultati in possesso dei requisiti a cui era condizionato il riconoscimento del beneficio previdenziale, indipendentemente dal fatto che avessero maturato il diritto alla pensione.

Per la Suprema Corte un simile argomento interpretativo risulta intrinsecamente fragile, in quanto non spiega affatto per quale ragione la seconda locuzione, alla luce di un’interpretazione sistematica della normativa di riferimento, non potrebbe configurare una sostanziale sinonimia della prima.

Se il legislatore avesse inteso garantire l’applicabilità delle previgenti disposizioni alla mera ricorrenza di tale situazione fattuale, lo avrebbe esplicitato, così come ha fatto in riferimento ad altre situazioni  ben determinate, nel caso, ad esempio, di chi avesse “avanzato domanda di riconoscimento all’INAIL”, la cui contemplazione risulterebbe invece pleonastica seguendo l’interpretazione prospettata dal ricorrente.

Sotto il profilo sistematico, l’interpretazione invocata è inconciliabile con la natura dei benefici previdenziali de quibus, posto che, secondo un consolidato indirizzo ermeneutico (4),  la rivalutazione contributiva non rappresenta una prestazione previdenziale autonoma, ma determina i contenuti del diritto alla pensione” , ovvero, in altri termini, introduce “una modalità di calcolo della anzianità contributiva ai fini delle ordinarie prestazioni pensionistiche di vecchiaia e di anzianità o di queste sostitutive in regimi speciali(5).

Di conseguenza, la maturazione, alla data del 2 ottobre 2003, del “diritto al conseguimento dei benefici previdenziali di cui all’articolo 13, comma 8, della legge n.251 del 21 marzo 1992, e successive modificazioni”, deve essere intesa nel senso del perfezionamento del diritto al trattamento pensionistico anche sulla base del beneficio di cui all’art.13, comma 8, della Legge n.257/1992.

La locuzione utilizzata nel predetto art.3, comma 132, della Legge n.350/2003 costituisce soltanto la conferma di quanto già espresso attraverso  quella relativa alla maturazione del “diritto al trattamento pensionistico” contenuta nell’art. 47, comma 6-bis, del D.L. n.269/2003.

Conseguentemente, i lavoratori, esposti all’amianto, in epoca antecedente all’ottobre 2003, per un periodo superiore a dieci anni nello svolgimento di attività assoggettate all’assicurazione obbligatoria dell’Inail, non sono considerati titolari di un diritto soggettivo perfetto alla pensione e alla sua determinazione secondo i criteri di cui all’art.13, comma 8, della Legge n.257/92, ma, altresì,  portatori di una legittima aspettativa a che tale diritto si concretizzi al momento dell’eventuale (sempre che, cioè, venissero a realizzarsi gli ulteriori requisiti) futura maturazione del diritto a pensione.

Dal che discende che non può ritenersi che la riforma del 2003 abbia inciso, retroattivamente, su posizioni di diritto soggettivo già acquisite.

Nella specie, la Suprema Corte ha affermato che la parziale frustrazione delle aspettative pensionistiche dei destinatari dell’art.13, comma 8, della Legge n.257/92, per quanti, ovviamente, non avessero già maturato il diritto alla pensione, non è connotata da arbitrarietà ed irrazionalità, inserendosi, al contrario, in un complessivo quadro di trasformazione radicale dell’istituto, nei termini e per le ragioni già diffusamente esposti.

Sulla base delle richiamate argomentazioni, la Cassazione ha dunque rigettato il ricorso ed ha condannato il lavoratore al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate in 3.000,00 € per compensi professionali, 100,00 € per spese, oltre accessori come per legge.

Valerio Pollastrini

 
(1)   - Convertito, con modificazioni,  dalla legge n.326 del 24 novembre 2003,  sotto la rubrica “Benefici previdenziali ai lavoratori esposti all’amianto’’;
(2)   - Emanata dopo la sentenza di condanna della Corte di Giustizia CE n. 240 del 1990, a seguito di una procedura d’infrazione;
(3)   - Come puntualmente evidenziato dalla Corte Costituzionale nella sentenza n. 376/2008;
(4)   - Cass., Sentenze n.21257/2004, n.21862/2004, n.15007/2005, n.15008/2005, n.16179/2005,  n.441/2006, n.15679/2006, n.23068/2007, n.18135/2010, n.3122/2011 e  n.8649/2012;
(5)   - Corte Costituzionale, Sentenza n.376/2008;

venerdì 25 aprile 2014

Esclusione della natura pubblica della società per azioni costituita dai Comuni

Nella sentenza n.9204 del 23 aprile 2014 la Corte di Cassazione ha precisato che la costituzione di una società attraverso il capitale pubblico, di per se  non ne attesta la natura pubblica.

Il caso di specie è giunto all’attenzione della Cassazione dopo che la Corte di Appello di Firenze, confermando la sentenza di primo grado emessa  dal Tribunale,  aveva annullato il provvedimento con il quale l’Inps, ai fini previdenziali ed assistenziali, aveva attribuito ad una società il numero di matricola e la classificazione nel settore terziario (1), nella classe intermediari (2),  nella categoria locazione di beni immobili propri e sublocazione, con chiusura della relativa posizione contributiva.

La Corte del merito aveva ritenuto l’azienda  un Ente Pubblico, in quanto  costituita dai 33 Comuni della Provincia di Firenze per la gestione in forma associata delle funzioni attinenti all’edilizia residenziale pubblica. Funzioni già espletate dagli Istituti autonomi case popolari (IACP) e poi dalle Aziende territoriali per l’edilizia residenziale pubblica (Ater) e trasferite alle Regioni ed ai Comuni.

Secondo il Giudice di Appello al personale delle disciolte Aziende territoriale per l’edilizia residenziale trasferito alla società ricorrente, che aveva optato per il mantenimento dell’iscrizione all’Inpdap, dovevano essere applicati gli istituti propri della gestione previdenziale pubblica.

Conseguentemente, il giudicante aveva escluso che la società fosse soggetta al pagamento dei contributi per malattia, assegni familiari, maternità e fondo di garanzia in favore dell’Inps, per il versamento dei quali l’Istituto aveva disposto l’apertura di una specifica posizione contributiva.

Contro questa sentenza l’Inps aveva ricorso in Cassazione, contestando il disposto annullamento della   posizione contributiva aperta dall’Istituto, in accoglimento della tesi aziendale in relazione alla  sua natura di organismo di diritto pubblico, in quanto costituita con capitale interamente pubblico e per le finalità di pubblica utilità perseguite.

Secondo la società la natura pubblica ne condizionava l’assoggettamento al corrispondente regime previdenziale, al quale non si applicano  i c.d. “contributi minori”, quali quelli per malattia, maternità, trattamento di fine rapporto, CUAF. Vale a dire, le prestazioni per le quali  l’Inps, in relazione ai dipendenti ex Ater transitati alla società e che avevano optato in base all’art 5 della L n 274/1991 per il mantenimento dell’iscrizione all’Inpdap, aveva invitato la società ad aprire la specifica posizione contributiva.

In proposito, l’Istituto Previdenziale aveva rilevato come,  ai sensi dell’articolo 49 della legge n.88 del 1989,   la classificazione dei datori di lavoro ai fini previdenziali e assistenziali riguarda tutti i datori di lavoro, sia pubblici che privati, e, nel caso di specie, l’inquadramento era stato effettuato in base alla concreta attività esercitata dalla società.

L’Inps aveva giustificato la propria pretesa sulla base delle seguenti ulteriori considerazioni:

-         Con riferimento ai contributi di malattia: la dizione generica di datori di lavoro e lavoratori non consente l’esonero contributivo per i datori di lavoro pubblici.

-         Con riferimento ai contributi per maternità:  il TU tace in merito  ai rapporti di lavoro subordinato privato e  tali erano i rapporti dei dipendenti dell’Ater transitati nella società.

-         Con riferimento ai contributi per il Fondo di garanzia del Tfr:  le espressioni utilizzate, generiche e senza distinzioni, tra datori di lavoro privati e pubblici non consentono l’esclusione dell’azienda dall’obbligo di pagamento.

-         Con riferimento ai contributi CUAF: per ottenere l’esonero sarebbe stato comunque  necessario dimostrare il pagamento diretto degli assegni familiari.

L’Inps aveva infine  contestato specificatamente le argomentazioni addotte dalla Corte territoriale ai fini  dell’asserita natura pubblica dell’azienda.

La pronuncia della Cassazione
Per dirimere la questione, la Suprema Corte ha compiuto  una lunga disamina della normativa di riferimento, affermando che, ai fini dell’accertamento dell’obbligo contributivo di cui è causa, fosse necessario analizzare la Legge Regionale n.77/1998, con la quale la Regione Toscana ha provveduto a riorganizzare la materia dell’edilizia residenziale.

Detta legge, dopo aver disciplinato le funzioni e i compiti della Regione e dei Comuni, ha stabilito lo scioglimento e la liquidazione degli Ater (3) e, con l’attribuzione del patrimonio a questi ultimi facente capo ai Comuni (4), ha previsto che “Le funzioni attinenti al recupero, alla manutenzione e alla gestione amministrativa del patrimonio destinato all’ERP (Edilizia residenziale pubblica) già in proprietà dei comuni e del patrimonio toro attribuito ai sensi dell’art. 3, comma 1, nonché quelle attinenti a nuove realizzazioni sono esercitate dai Comuni stessi in forma associata nei livelli ottimali di esercizio, individuati con la procedura di cui al presente articolo”.

La norma dispone poi che i Comuni gestiscano le altre funzioni preferibilmente in forma associata, nel rispetto del principio di economicità e dei criteri di efficienza ed efficacia.

L’articolo 6, intitolato “forme associate”, ha quindi previsto che i Comuni stabiliscano, mediante apposita conferenza, l’esercizio in forma associata delle citate funzioni, provvedendo altresì alla costituzione del soggetto affidatario.

L’art 7 della legge dispone l’assegnazione del personale Ater ai soggetti individuati per l’esercizio delle funzioni e stabilisce che i rapporti di lavoro siano disciplinati dal CCNL degli addetti al settore.

La Cassazione ha precisato che la richiamata normativa si inserisce nel processo di riforma del settore (5) comportante la trasformazione degli enti di edilizia residenziale pubblica spesso in enti economici o all’istituzione di una molteplicità di enti riformati ai quali sono state attribuite svariate denominazioni (Aziende, Agenzie ecc) tutte dirette a porre in risalto il nuovo ruolo imprenditoriale attribuito agli enti”.

La Suprema Corte, a proposito dell’assetto istituzionale, ha ricordato come, in un primo momento, le scelte dei legislatori regionali non si erano discostate troppo dalla forma tradizionale propria degli Iacp,, aventi natura di enti pubblici, dotati di organizzazione, amministrazione e contabilità autonome, ruolo strumentale dell’ente rispetto alla Regione che ne esercita il controllo.

Molte leggi regionali, per effetto della disposta trasformazione dei suddetti enti in enti pubblici economici, hanno previsto la loro possibile partecipazione a consorzi, società miste ed altre forme di raggruppamento temporaneo, a volte anche per fini non istituzionali.

Queste condizioni hanno causato  notevoli difficoltà per stabilire quanto, nei nuovi enti, fosse rimasto pubblico e quanto  privato.

Tornando al  caso in esame, la Cassazione ha rilevato che,  in applicazione della disposizione della Legge Regionale, secondo cui le funzioni attinenti al recupero, alla manutenzione e alla gestione amministrativa del patrimonio destinato all’ERP (Edilizia residenziale pubblica), già in proprietà dei Comuni, nonché quelle attinenti a nuove realizzazioni, siano esercitate dai Comuni stessi in forma associata, era stata costituita l’azienda tra i 33 Comuni della Provincia di Firenze.

La Cassazione ha però ritenuto non condivisibile l’assunto con il quale la Corte di Appello aveva sostenuto che la riconducibilità dell’azienda ad un Ente Pubblico ne determinasse la mancata applicazione della normativa previdenziale relativa ai c.d. “contributi minori” per il personale proveniente dai disciolti Ater che avessero optato per il mantenimento dell’iscrizione all’Inpdap.

La forma prescelta per lo svolgimento della gestione dell’edilizia residenziale pubblica era stata quella della società per azioni, nella quale l’Amministrazione  esercitava il controllo esclusivamente attraverso gli strumenti di diritto privato, dovendosi escludere, in mancanza di una disciplina derogatoria rispetto a quella propria dello schema societario,  che la mera partecipazione da parte dell’Ente pubblico fosse idonea a determinare la natura dell’organismo attraverso cui la gestione del servizio pubblico era stata attuata.

La partecipazione pubblica alla società non costituisce infatti un tratto caratterizzante e determinante per attestarne la natura pubblica. Ciò, nella fattispecie in esame, risulta confermato dallo statuto dell’azienda che, all’art. 6, prevede la possibilità di cedere a soggetti terzi, pubblici o privati, una quota, comunque inferiore al 50% del capitale, delle azioni.

Secondo la Cassazione, dunque, non sussiste alcuna apprezzabile deviazione rispetto alla comune disciplina privatistica delle società di capitali.

A tale proposito la Suprema Corte ha richiamato quanto già affermato dalla giurisprudenza di legittimità (6),  sulla circostanza che “dal punto di vista previdenziale e pensionistico il personale dello Iacp è stato iscritto all’Inpdap, gestione ex CPDEL, mentre a mano a mano che venivano disposte le suddette trasformazioni , i dipendenti degli enti e strutture sostitutive degli IACP sono stati iscritti all’Inps per l’assicurazione IVS, cd. previdenza maggiore”.

Fino a quando gli IACP sono rimasti pubbliche amministrazioni, le prestazioni per malattia  e per la maternità degli operai, relative alla c.d. “previdenza minore”, sono state regolate dal regime proprio di tali amministrazioni, in base al quale il corrispondente trattamento economico deve essere corrisposto direttamente dalle amministrazioni o enti di appartenenza.

Sempre con riguardo alla “previdenza minore”,  nulla è stato invece espressamente disposto in riferimento ai dipendenti degli enti e delle strutture sostitutive degli Iacp, ma, come regola generale, per l’assicurazione IVS in favore degli iscritti all’Inps, è sempre lo stesso Istituto a provvedere all’erogazione delle relative prestazioni, grazie ai contributi versati dai datori di lavoro.

Nel silenzio della legge, pertanto, la Suprema Corte ritiene debba farsi riferimento a tale regola generale, che assolve anche all’esigenza di applicare a tutti i dipendenti dei suddetti enti,  comunque denominati e configurati, la medesima disciplina  previdenziale.

Per individuare quali fossero le caratteristiche sostanziali dell’ente pubblico, la Corte di Appello aveva richiamato  la normativa comunitaria e la nozione di organismo pubblico contenuta nella disciplina degli appalti, sul presupposto che detta normativa fornisse una nozione unitaria di organismo pubblico.

Si è peraltro osservato che l’oggetto del servizio pubblico locale dell’attività, esercitata mediante società di diritto privato, e la partecipazione pubblica alla stessa, avesse rilievo ai fini diversi da quelli previdenziali, preoccupandosi il legislatore comunitario e quello nazionale di introdurre misure  antitrust, miranti ad aprire un mercato o a consolidarne l’apertura, eliminando barriere all’entrata, attraverso la riduzione o l’eliminazione dei vincoli al libero esplicarsi della capacità imprenditoriale e della competizione tra imprese per favorire la concorrenza (7).

Pertanto,  la circostanza che  la pubblica amministrazione provveda in proprio al perseguimento di scopi pubblici, attribuendo l’appalto o il servizio  ad altra entità mediante il sistema dell’affidamento diretto, c.d. in house providing, cioè senza gara, non muta la natura giuridica privata della società con riguardo alle ricadute previdenziali dei rapporti di lavoro, ma assume rilievo nell’ordinamento nazionale e comunitario con riguardo al mercato e alla tutela della concorrenza.

Parimenti, stante il denaro pubblico utilizzato, non costituisce un indice della natura pubblica dell’ente il controllo esercitato su di esse dalla Corte dei Conti, così come irrilevanti risultano i vincoli di finanza pubblica, atteso che l’impegno di capitale pubblico impone il rispetto dei principi di imparzialità, di economicità e di buon andamento della pubblica amministrazione.

Infine, con riferimento ai cosiddetti contributi minori, la stessa Corte di legittimità in passato aveva avuto modo di confermare l’obbligo della loro corresponsione all’Inps per le società con partecipazione maggioritaria dell’ente locale (8).

Per tutte le riportate considerazioni, la Suprema Corte ha cassato la sentenza impugnata, prescrivendo al giudice del rinvio  la decisione sulla sussistenza o meno delle singole obbligazioni contributive e della loro misura e decorrenza, alla luce della statuizione di cui sopra con la quale  è stata esclusa la natura pubblica dell’azienda in oggetto.

Valerio Pollastrini

 
(1)   - Commercio, servizi, professionisti ed altri;
(2)   - Immobiliari, agenzie di viaggio, logistica eccetera;
(3)   -Agenzie Regionali Territoriali per l’Edilizia;  
(4)   - Art 5,  comma 1, della Legge Regionale n.77/1998;
(5)   - Cass., Sentenza n.2756/2014;
(6)   - Cass., Sentenza n.2756/2014;
(7)   - Corte Cost., Sentenza n.430/2007; Cass., Sentenza n.28022/2013;
(8)   - Cass., Sentenze n.19087, n.20818, n.20819 e n.22318 del 2013;