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domenica 22 dicembre 2013

Se cambia datore il datore di lavoro, i dipendenti non possono subire riduzioni del salario


Nel caso di cessione di azienda, la Corte Ue (1) ha stabilito che  i lavoratori assorbiti dal nuovo datore di lavoro, chiamati a svolgere le stessa prestazioni del passato e nello stesso luogo, non possono subire decurtazioni del salario.

La vicenda ha riguardato il gruppo olandese “Heineken International”, che riunisce produttori di birra, nel cui ambito il personale risulta dipendente di una società interna al gruppo che svolge la mansione di datore di lavoro centrale e distacca il personale presso le varie società del gruppo  nei Paesi Bassi.

Una società del gruppo aveva subappaltato alcune attività ad una un'impresa esterna, la “Albron”, con la conseguenza che i dipendenti impegnati in quel settore erano automaticamente passati alle dipendenze della “Albron”.

Un lavoratore, in seguito al trasferimento dell’impresa, che in questo caso doveva  essere inquadrato come “cessione”, si era visto praticamente dimezzato il suo salario.

 
Nello specifico, il lavoratore, in seguito alla vendita ad altra società dei servizi nei quali svolgeva le proprie prestazioni, aveva visto scendere il suo salario annuo da 46mila a 20mila euro lordi.

La Corte Ue è stata quindi investita della questione se, nel caso di specie, vi fosse stato un trasferimento di impresa e se potesse considerarsi "cedente" l'impresa del gruppo alla quale i lavoratori erano stati assegnati senza tuttavia essere formalmente collegati ad essa da un contratto di lavoro.

Secondo la Corte Ue, in caso di trasferimento d’impresa, i diritti dei lavoratori debbono essere tutelati anche se cedente è un'impresa alla quale sono legati da un rapporto di lavoro, sebbene siano legati, in seno al gruppo, ad un'altra impresa con un contratto di lavoro.

La direttiva 2001/23/CE, sancisce infatti che, ai fini della tutela dei lavoratori, non è richiesto necessariamente un vincolo contrattuale, dal momento che la norma fa riferimento in modo equivalente ad un contratto di lavoro o ad un rapporto di lavoro.

Ai sensi della suddetta direttiva, infatti, il trasferimento d'azienda si configura  in caso di cessione di un'entità economica che conserva la propria identità, intesa come insieme di mezzi organizzati al fine di svolgere un'attività economica, sia essa essenziale o accessoria.

 Alla luce di questa disposizione, si configura un trasferimento di azienda nel caso in cui il cambiamento della persona fisica o giuridica responsabile dell’attività economica dell’entità trasferita che,  a tale titolo, instaura con i lavoratori di tale entità rapporti di lavoro, indipendentemente dall'esistenza di vincoli contrattuali.

Quindi, in un contesto come quello di specie, il datore di lavoro non contrattuale, cui i lavoratori sono permanentemente assegnati, può essere considerato un "cedente", con tutte le tutele che ne conseguono.

Valerio Pollastrini

 
(1)   – Corte Ue, Sentenza n. C-242/09 del 21 ottobre 2010;

Il lavoratore ha diritto al trasferimento nella sede più vicina al domicilio della persona da assistere


In materia di assistenza al familiare disabile, il 5° comma dell’articolo 33 della legge n.194/1992 sancisce il diritto del lavoratore alla scelta,  ove possibile, della sede di lavoro più vicina al domicilio  della  persona da assistere.
                                                                            
Nella sentenza n.28320 del 18 dicembre 2013 la Corte di Cassazione ha ritenuto che la suddetta norma risulti applicabile, non soltanto in occasione della scelta della sede di lavoro al momento dell’assunzione, ma anche nel corso del rapporto di lavoro mediante domanda di trasferimento.

Il caso trae spunto dalla richiesta di trasferimento dal proprio ufficio che un dipendente del Ministero della Giustizia aveva motivato con la necessità di avvicinarsi alla madre disabile, bisognosa di cure e assistenza continue.
Dinnanzi al rifiuto del datore di lavoro, il lavoratore si era rivolto al Tribunale di Campobasso che però ne aveva respinto le richieste.
La Corte di Appello di Campobasso, in riforma della sentenza di primo grado, aveva successivamente riconosciuto, ai sensi dell’ art. 33 della legge n. 104 del 1992,  il diritto del lavoratore al trasferimento in una sede che gli permettesse di assistere al meglio alla madre.
La Corte territoriale, dopo aver attestato la continuità nell’assistenza della madre invalida da parte del dipendente istante, ne aveva accolto le richieste, ritenendo che  il citato art. 33, comma 5 della legge n. 104 del 1992 fosse applicabile anche al caso di specie.

Contro il giudizio di appello il Ministero della Giustizia aveva proposto ricorso per cassazione, sostenendo che, pur ammettendo la possibilità di applicazione dell’art. 33, comma 5 della legge n. 104 del 1992 al caso di trasferimento e non solo di prima assegnazione, il diritto al trasferimento per assistere il familiare disabile esisterebbe solo se ed in quanto l’assistenza a quest’ultimo sia in atto al momento dell’istanza di trasferimento.

La pronuncia della Cassazione
La Suprema Corte, nel respingere il ricorso del datore di lavoro, ha affermato il principio di diritto per il quale la  normativa sul  diritto del genitore o familiare lavoratore “che assista con continuità un parente o un affine entro il terzo grado handicappato” di scegliere, ove possibile, la sede di lavoro più vicina al proprio domicilio, risulta applicabile non soltanto all’inizio del rapporto di lavoro, mediante la scelta della sede ove viene svolta l’attività lavorativa, ma anche nel corso del rapporto attraverso la  domanda di trasferimento.

La Cassazione ha ricordato, infatti, come la ratio della norma in questione sia quella di favorire l’assistenza al parente o affine handicappato e, pertanto, risulta irrilevante, se una simile esigenza sorga nel corso del rapporto o sia presente all’epoca dell’inizio del rapporto stesso.

La Suprema Corte ha poi proseguito ribadendo che, quale condizione per il godimento del diritto in questione la norma richiede, oltre allo stato di handicappato del parente o affine da assistere, la continuità dell’assistenza. Si tratta di circostanze di fatto il cui accertamento è riservato al giudice del merito che, nel caso in esame,  aveva compiutamente considerato, motivando adeguatamente le proprie risultanze.

Per i menzionati motivi la Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso del Ministero della Giustizia, condannando la parte soccombente al pagamento delle spese di giudizio liquidate in 100,00 € per esborsi e 2.500,00 € per compensi professionali oltre accessori di legge.

Valerio Pollastrini

Riduzione contributiva per il settore edile


Con la News del 20 dicembre 2013 l’Inps ha reso nota la conferma per il 2013, da parte del Ministero del lavoro e delle politiche sociali, della particolare agevolazione contributiva prevista per le aziende edili.

Si tratta della riduzione dell’11,50% dei contributi  per le assicurazioni sociali diverse da quella pensionistica, prevista per i soli operai occupati con un orario di lavoro di 40 ore settimanali, con esclusione quindi dei lavoratori a tempo parziale e di quelli per i quali sono previste specifiche agevolazioni contributive ad altro titolo.

Per ulteriori informazioni sui requisiti richiesti ai datori di lavoro interessati e sulle modalità operative per la presentazione delle istanze, si consiglia di prendere visione della Circolare Inps n.178 del 19 dicembre 2013:

sabato 21 dicembre 2013

Ultime novità diramate dall’Inps sul lavoro accessorio


A distanza di un solo giorno, l’Inps è intervenuta con  due diverse circolari, la numero 176  e la numero 177, rispettivamente del 18 e del 19 dicembre 2013, per fornire alcuni chiarimenti in merito all’istituto del lavoro occasionale accessorio e all'utilizzo dei voucher o buoni lavoro.

La Circolare n. 176, l’Istituto ha riepilogato le  novità introdotte dalla L. 92/2012 di riforma  del mercato del lavoro, con particolare riguardo alle modifiche procedurali relative ai limiti economici.

Il compenso complessivamente percepito dal prestatore nel corso dell’anno solare (1) non può essere superiore:

-         a 5.000 euro, con riferimento alla totalità dei committenti, da intendersi come importo netto per il prestatore, pari a 6.666 € lordi;

-         a 2.000 euro per prestazioni svolte a favore di imprenditori commerciali o professionisti, con riferimento a ciascun committente, da intendersi come importo netto per il prestatore, pari a 2.666 € lordi;

-         a 3.000 euro per i prestatori percettori di prestazioni integrative del salario o con sostegno al reddito che, per l’anno 2013, possono effettuare lavoro accessorio in tutti i settori produttivi compresi gli enti locali, da intendersi come importo netto per il prestatore, corrispondenti a 4000 € lordi.

Il rispetto dei suddetti limiti economici costituisce un elemento qualificante del lavoro occasionale accessorio e per tale motivo la circolare ha chiarito che le procedure telematiche sono state aggiornate per rendere così visibile, sia al prestatore che al committente, la somma dei buoni lavoro o voucher già riscossi dal prestatore relativamente allo stesso committente nel corso dell’anno solare di riferimento.

L’Inps ha inoltre chiarito come, dal momento che i buoni lavoro possono essere riscossi nei limiti di 24 mesi se emessi da INPS e Poste Italiane e 12 mesi se emessi dai tabaccai abilitati e Banche popolari, il relativo compenso può non essere presente nell’estratto conto del prestatore. Ciò determina il permanere, a carico dei prestatori di lavoro, dell’onere di dichiarare di non aver superato i suddetti limiti economici con riferimento sia ai voucher riscossi che a quelli ricevuti, ma non ancora incassati, nell’anno solare.

La Circolare n.177 specifica, invece, le nuove modalità di invio della comunicazione obbligatoria dell’inizio dell’attività di lavoro accessorio.

Finora, per i voucher cartacei distribuiti presso le sedi INPS,  tale comunicazione doveva essere inoltrata  con la trasmissione della dichiarazione all’INAIL a mezzo fax o tramite il sito www.inail.it/Sezione Servizi on line.

Per i buoni lavoro emessi dalle Poste italiane o dal circuito Tabaccai e Banche, la semplice comunicazione telematica all’INPS non era sufficiente e lo stesso Istituto, nel rispetto della normativa vigente, si è fatto carico di trasmettere all’INAIL, in tempo reale,  le comunicazioni ricevute, concernenti anche le variazioni.

Con questa seconda circolare l’Inps ha comunicato che, a partire dal 15 gennaio 2014, la dichiarazione di inizio attività lavorativa e le comunicazioni di eventuali variazioni, dovranno essere comunicate direttamente all’INPS  con modalità telematica e, dalla medesima data, cesserà l’adempimento diretto a carico dei beneficiari della comunicazione all’Inail.  Il  fax INAIL e la sezione del sito www.inail.it, pertanto,  non saranno più operativi e saranno disattivati.

Valerio Pollastrini


(1)   - inteso come periodo dal 1° gennaio al 31 dicembre;

 
Allegati:



 


venerdì 20 dicembre 2013

Per la pensione di inabilità non conta il reddito del coniuge


La Corte di Cassazione, nella sentenza n.27812 del 12 dicembre 2013, ha chiarito che, a decorrere dalle domande presentate successivamente al 28 giugno 2013, nonché per tutte le domande giudiziarie non ancora definite, i limiti economici richiesti per l’erogazione della pensione di inabilità debbono  essere verificati tenendo conto esclusivamente dei redditi del soggetto richiedente e non anche di quelli del coniuge.

L’intervento della Suprema Corte era stato richiesto dall’Inps dopo che la Corte di Appello di Messina, confermando quanto disposto nel primo grado di giudizio, aveva accolto la doglianza di una signora tesa ad ottenere la pensione di inabilità a decorrere dal dicembre 2006, in considerazione dei soli redditi personali, con esclusione di quelli percepiti dal coniuge.

La pronuncia della Cassazione
La Suprema Corte ha  preliminarmente riepilogato la normativa di riferimento, ricordando come, fino all’entrata in vigore del D.L. n. 76/2013, ai fini dell’accertamento della sussistenza del requisito reddituale per l’assegnazione della pensione di inabilità agli invalidi civili assoluti, assumeva rilievo non solamente il reddito personale dell’invalido ma anche quello del suo eventuale coniuge. Di conseguenza, il beneficio doveva essere negato nel caso in cui la sommatoria di tali redditi risultasse superiore al limite richiesto per legge.

Il comma 5 dell’articolo 10 del D.L. 28 giugno 2013, n. 76, aveva però  modificato l’art. 14-septies del decreto-legge 30 dicembre 1979, n. 663, inserendo un’ ulteriore disposizione nella  quale veniva specificato che il limite di reddito per il diritto alla pensione di inabilità in favore dei mutilati e degli invalidi civili dovesse essere calcolato tenendo conto esclusivamente  del reddito dei singoli richiedenti, con esclusione, quindi, di quanto  percepito da altri componenti del nucleo familiare dei soggetti interessati.

Per la Cassazione, tale modifica legislativa risulta applicabile anche per le  pensioni di inabilità. Il successivo comma 6 della norma sopra citata, aveva infatti specificato che la novità dovesse trovare applicazione anche alle domande di pensione di inabilità limitatamente al riconoscimento del diritto a pensione con decorrenza dal 28 giugno 2013 (1), senza il pagamento di importi arretrati.

La Suprema Corte ha affermato che il legislatore, attraverso un simile provvedimento abbia voluto definire un nuovo regime reddituale senza, tuttavia, pregiudicare le posizioni di tutti quei soggetti che, avendo presentato domanda nella vigenza della precedente normativa, non avessero ancora visto la definizione in sede amministrativa del procedimento ovvero fossero parti di un procedimento giudiziario ancora in essere.

Tornando al caso di specie, la Cassazione ha  accolto il ricorso dell’Inps ed ha rinviato la questione alla Corte di Appello di Messina che, in diversa composizione, dovrà accertare il possesso dei requisiti reddituali della richiedente, nei termini sopra esposti, in relazione al periodo antecedente e successivo al 28 giugno 2013.

Valerio Pollastrini


(1)   – data di entrata in vigore del D.L. 28 giugno 2013, n. 76;

Incentivi per chi assume soggetti in trattamento Aspi


Con la Circolare n.175 del 18 dicembre 2013 l’Inps ha illustrato gli aspetti generali degli incentivi previsti in favore della ricollocazione lavorativa dei soggetti privi di occupazione, percettori dell’indennità ASpI.

Il 28 giugno del 2013, in coincidenza con la sua pubblicazione in Gazzetta Ufficiale, è entrato in vigore il DL n.76/2013 (1), recante  “Primi interventi urgenti per la promozione dell’occupazione, in particolare giovanile, della coesione sociale, nonché in materia di Imposta sul valore aggiunto (IVA) e altre misure finanziarie urgenti”.

 
La finalità prevalente del provvedimento è quella di rilanciare l’occupazione attraverso la previsione di incentivi per l’assunzione di giovani, nonché di interventi in favore della ricollocazione lavorativa di soggetti privi di occupazione, percettori dell’indennità  ASpI.

La circolare in commento si occupa dell’incentivo previsto in favore dei percettori dell’indennità Aspi e ricorda che la nuova agevolazione è stata introdotta attraverso la modifica che l’articolo 7, c. 5, lettera b) del DL 76/2013 ha apportato  alla legge n. 92/2012 di riforma del mercato del lavoro.

Dopo l’articolo 2, comma 10, è stato, infatti, inserito il comma 10bis, che così recita: “Al datore di lavoro che, senza esservi tenuto, assuma a tempo pieno e indeterminato lavoratori che fruiscono dell’Assicurazione sociale per l’impiego (ASpI) di cui al comma 1 è concesso, per ogni mensilità di retribuzione corrisposta al lavoratore, un contributo mensile pari al cinquanta per cento dell’indennità mensile residua che sarebbe stata corrisposta al lavoratore. Il diritto ai benefici economici di cui al presente comma è escluso con riferimento a quei lavoratori che siano stati licenziati, nei sei mesi precedenti, da parte di impresa dello stesso o diverso settore di attività che, al momento del licenziamento, presenta assetti proprietari sostanzialmente coincidenti con quelli dell'impresa che assume, ovvero risulta con quest'ultima in rapporto di collegamento o controllo. L'impresa che assume dichiara, sotto la propria responsabilità, all'atto della richiesta di avviamento, che non ricorrono le menzionate condizioni ostative.

 
I destinatari del provvedimento
Il beneficio è riferito alle assunzioni a tempo pieno ed indeterminato di soggetti in godimento dell’indennità ASpI. La nuova misura potrà riferirsi anche a lavoratori che, avendo inoltrato istanza di concessione dell’indennità di disoccupazione, abbiano titolo alla prestazione ma non l’abbiano ancora percepita.

Dal momento che la finalità della norma è rivolta alla creazione stabile di occupazione per i soggetti che ne sono sprovvisti, l’Inps ha specificato che si potrà accedere all’incentivo anche in caso di trasformazione a tempo pieno ed indeterminato di un rapporto a termine già instaurato con un lavoratore, titolare di indennità ASpI, cui, in forza della previsione contenuta all’articolo 2, c. 15 della legge n. 92/2012, sia stata sospesa la corresponsione della prestazione in conseguenza della sua occupazione a tempo determinato.

I beneficiari dell’incentivo
Possono accedere alla nuova misura incentivante tutti i datori di lavoro, comprese le Cooperative che instaurano con soci lavoratori un rapporto di lavoro in forma subordinata ex art. 1, co. 3, legge n. 142/2001 e successive modificazioni, nonché le imprese di somministrazione di lavoro con riferimento ai lavoratori assunti  a scopo di somministrazione.

Oggetto dell’incentivo
L’incentivo è pari al 50% dell'importo dell'indennità residua ASpI cui il lavoratore avrebbe avuto titolo se non fosse stato assunto.

L’importo viene corrisposto sotto forma di contributo mensile e spetta solamente per i periodi di effettiva erogazione della retribuzione al lavoratore.

Qualora questi sia stato retribuito per tutto il mese, il contributo compete in misura intera; in presenza di giornate non retribuite (per eventi quali, ad es., astensione dal lavoro per sciopero, malattia, maternità, ecc.), invece, l'importo mensile dovrà essere diviso per i giorni di calendario del mese da considerare e il quoziente così ottenuto, moltiplicato per il numero di giornate non retribuite, dovrà essere detratto dal contributo riferito allo stesso mese. Sono considerate retribuite anche le giornate in cui si è in presenza di emolumenti ridotti.

L’istituo previdenziale ha precisato, altresì, che la somma a credito dell'azienda non potrà comunque essere superiore all'importo della retribuzione erogata al lavoratore interessato nel corrispondente mese dell'anno, comprendendovi anche le eventuali competenze ultramensili calcolate pro quota.

Il beneficio introdotto dalla disposizione in argomento non può comunque superare la durata dell'indennità ASpI che sarebbe ancora spettata al lavoratore che viene assunto, durata da determinarsi con riferimento alla decorrenza iniziale dell'indennità stessa, detraendo i periodi di cui l'interessato ha già usufruito all'atto dell'assunzione.

Il diritto dell'azienda a percepire il contributo cessa in ogni caso dalla data in cui il lavoratore raggiunge i requisiti per il pensionamento di vecchiaia o anticipato.

Cumulo con altri incentivi.
In presenza degli specifici presupposti, l’incentivo, è cumulabile con le agevolazioni contributive eventualmente spettanti in forza della normativa vigente.

Condizioni di accesso al beneficio
L’incentivo introdotto dall’articolo 7, c, 5, lettera b) del DL 76/2013, deve rispettare la disciplina comunitaria in materia di aiuti all’occupazione. Conseguentemente, secondo gli orientamenti espressi dal Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, la concessione del beneficio è subordinata alla disciplina comunitaria degli aiuti "de minimis", di cui al Regolamento CE n. 1998/2006, ovvero degli ulteriori regolamenti comunitari di settore in materia.

Ove ricorrano le condizioni per l’applicazione dei suindicati regolamenti “de minimis”, le imprese dovranno trasmettere all’Inps apposita dichiarazione sugli aiuti “de minimis”, ai sensi e per gli effetti della previsione contenuta nel DPR n.445/2000.

Tale dichiarazione dovrà attestare che, nell’anno di assunzione a tempo pieno e indeterminato, e nei due esercizi finanziari precedenti, non siano percepiti aiuti nazionali, regionali o locali eccedenti i limiti complessivi degli aiuti "de minimis". La predetta dichiarazione dovrà inoltre contenere la quantificazione degli incentivi “de minimis” già fruiti nel triennio alla data della richiesta.

L'importo totale dell’agevolazione non deve superare i diversi limiti massimi, previsti in relazione ai differenti ambiti di applicazione, su un periodo di tre anni.

Il triennio è mobile, nel senso che, in caso di assunzioni successive a quelle per cui è stata trasmessa la dichiarazione e si è goduto dell’agevolazione, l'importo dell’incentivo ulteriormente fruibile deve essere ricalcolato e deve essere individuato di volta in volta considerando tutti gli aiuti concessi nel periodo, con la conseguente trasmissione di una nuova dichiarazione “de minimis”.

 Per la corretta fruizione dell’agevolazione, occorre:

- determinare il triennio di riferimento rispetto alla data di assunzione del lavoratore agevolato;

- calcolare il limite sommando tutti gli importi di aiuti “de minimis”, di qualsiasi tipologia, ottenuti dal soggetto nel triennio individuato, inclusa l’agevolazione da attribuire.

Nelle ipotesi di somministrazione, i limiti sull’utilizzo degli aiuti “de minimis” si intendono riferiti al soggetto utilizzatore, cui spetta, quindi, l’onere della dichiarazione.

I principi appena enunciati trovano applicazione anche in caso di accesso all’incentivo in relazione alla trasformazione a tempo pieno e indeterminato di un precedente rapporto a termine già instaurato con un soggetto titolare di indennità ASpI.

In tale circostanza, ai fini del rispetto dei limiti complessivi degli aiuti "de minimis" nel triennio di riferimento, si terrà conto della data di trasformazione del rapporto.

Indicazioni operative. Adempimenti dei datori di lavoro e delle Sedi
Per quanto riguarda le indicazioni operative relative agli adempimenti richiesti ai datori di lavoro ed alle sedi Inps per l’accesso agli incentivi, nonché per i termini della trasmissione della dichiarazione “de minimis”, si consiglia di consultare il testo integrale della circolare:


 
Valerio Pollastrini 

 
(1) - Il decreto è stato successivamente convertito, con modificazioni, dalla legge 9 agosto 2013, n. 99;

mercoledì 18 dicembre 2013

La nomina del Responsabile del Servizio di Prevenzione e Protezione non esclude la responsabilità del datore di lavoro


Nell’ambito della sicurezza, la designazione aziendale del Responsabile del Servizio di Prevenzione e Protezione, non esclude la responsabilità diretta del datore di lavoro in caso di infortuni sul lavoro.

La nomina del RSPP è infatti imposta dal D.Lgs n.626/1994 e non rappresenta in alcun modo una delega di funzioni come nel caso, facoltativo, del dirigente delegato all'osservanza delle norme antinfortunistiche e alla sicurezza dei lavoratori.

Nella sentenza n.50605 del 16 dicembre 2014 la Corte di Cassazione ha ricordato come la figura del RSPP non incida direttamente sulla struttura aziendale. Si tratta, infatti, di una funzione meramente ausiliaria finalizzata a supportare e non a sostituire il datore di lavoro nell'individuazione dei fattori di rischio nella lavorazione, nella scelta delle procedure di sicurezza e nelle pratiche di informazione e di formazione dei dipendenti.

Il caso prende spunto da un infortunio mortale occorso ad un lavoratore, intento insieme ad un collega a caricare alcuni infissi in PVC completi di vetro sopra una pedana, per il successivo trasporto all'interno della società cooperativa presso la quale prestava la sua attività lavorativa.

Nel corso dei giudizi di merito il datore di lavoro era stato ritenuto penalmente responsabile dell’evento per la sua posizione di garanzia che lo vincolava come  titolare dell’obbligo  di adottare tutte le accortezze necessarie per evitare l’infortunio.

Nel dibattimento era stato accertato che,  all'epoca dei fatti,  il datore di lavoro rivestiva la qualifica di presidente e legale rappresentante della ditta e che, con un atto privo di data, aveva delegato ad un socio la qualifica di Responsabile del Servizio di Prevenzione e Protezione.

Quanto alla dinamica dei fatti, l’istruttoria aveva appurato come la procedura utilizzata  per il carico degli infissi fosse  pericolosa e scorretta. Gli operatori non avevano ricevuto un'adeguata formazione sulla movimentazione dei carichi e sui rischi inerenti, inoltre era emerso che, nonostante l’ambiente non sicuro nel quale erano costretti ad operare, non erano stati loro forniti gli adeguati dispositivi di protezione individuali atti ad evitare eventuali infortuni o, comunque, a limitarne i danni.

La Cassazione, nel confermare quanto disposto nel giudizio di merito, ha rilevato come la Corte territoriale avesse correttamente individuato il nesso causale tra l'omissione delle precauzioni da adottare sul luogo di lavoro e della valutazione del rischio nella predisposizione della procedura di carico in questione ed il fatale infortunio.

Gli infissi caduti addosso al lavoratore, schiacciandolo,  non erano stati assicurati autonomamente alla pedana, risultando invece connessi ad essa attraverso un semplice cordino che, di volta in volta, veniva slegato per aggiungere ulteriori elementi.

Caricando l'ultimo infisso, tutti gli altri, essendo liberi, erano scivolati addosso al lavoratore travolgendolo.

Subito dopo il sinistro la stessa fase di lavorazione relativa al carico degli infissi  era stata sensibilmente modificata e questa circostanza aveva evidenziato, a detta della Corte di Appello, sia la stretta correlazione causale tra l'incidente e l'inadeguata valutazione dei rischi, che  l'insufficienza del relativo documento.

In merito alla supposta esclusione di responsabilità del datore di lavoro in virtù della delega conferita al socio, la Cassazione ha  rilevato come la delega, tra l’altro priva di data e non riconducibile con certezza ad un momento  antecedente al sinistro, era finalizzata alla nomina del RSPP e  quindi priva di alcuna attribuzione di poteri finanziari né di alcun altro potere proprio del datore di lavoro, tali da consentire al delegato di far fronte, in via diretta, alle esigenze in materia di prevenzione degli infortuni.

La Suprema Corte, in proposito, ha ricordato come la nomina del RSPP differisca da quella del delegato per la sicurezza, figura, quest’ultima,  del tutto eventuale e finalizzata all’attribuzione a carico del  destinatario di poteri e responsabilità originariamente ed istituzionalmente gravanti sul datore di lavoro.

Peraltro, ha proseguito la Cassazione, l'art. 17 del D.Lgs. n, 81 del 2008, esclude, in materia di prevenzione degli infortuni sul lavoro, che il datore di lavoro possa delegare , neanche nell'ambito di imprese di grandi dimensioni, l'attività di valutazione dei rischi per la salute e la sicurezza del lavoratore e la designazione del responsabile del servizio di prevenzione e protezione dei rischi.   

In conclusione, nonostante la nomina di un Responsabile del Servizio di Prevenzione e Protezione, il datore di lavoro conserva l'obbligo di effettuare la valutazione dei rischi e di elaborare il documento relativo alle misure di prevenzione e protezione, mantenendo a suo carico ogni responsabilità personale nel caso in cui il verificarsi di un infortunio sul lavoro sia riconducibile ad inadempienze aziendali.

Valerio Pollastrini

 

Sicurezza sul lavoro: punibile con il licenziamento il rifiuto di indossare i dispositivi di protezione


Nell’ambito del rapporto di lavoro subordinato, sia in dottrina che in giurisprudenza, è pacificamente riconosciuto il diritto del dipendente di rifiutare di svolgere la propria prestazione nel caso in cui il datore di lavoro sia totalmente inadempiente nei suoi confronti.

Analogamente pacifica, di contro, l’illegittimità del rifiuto   di eseguire la prestazione nei modi e nei termini imposti dal datore di lavoro, in forza del suo potere direttivo, quando questi abbia adempiuto ai suoi doveri contrattuali.

Spostando la questione sul piano della sicurezza, se gli obblighi del datore di lavoro impongono il mantenimento di un ambiente di lavoro salubre e sicuro, la costante vigilanza sul rispetto delle direttive redatte nel documento di valutazione dei rischi e la fornitura di adeguati dispositivi di protezione individuale, come, ad esempio, le scarpe con punta rigida, casco, guanti ed occhiali di protezione, a carico del lavoratore sussistono, di contro, gli obblighi di rispettarne le specifiche prescrizioni e di utilizzare correttamente i dispositivi di protezione.

E’ quanto riepilogato nella sentenza n.25392 del 12 novembre 2013 nella quale la Corte di Cassazione ha confermato la legittimità del licenziamento irrogato, dopo numerosi precedenti procedimenti disciplinari, ad un lavoratore che si era costantemente rifiutato di indossare gli occhiali di protezione forniti dall’azienda.

Valerio Pollastrini

Conversione del permesso di soggiorno


A proposito della numerosa presenza nel territorio italiano di cittadini extracomunitari, il Ministero dell’Interno, nella Circolare n.7438 dell’11 dicembre 2013, ha chiarito che anche il Master di I° livello rientra tra i titoli di studio che consentono la conversione del permesso di soggiorno per motivi di studio in permesso di soggiorno per motivi di lavoro ovvero per motivi di attesa occupazione.

martedì 17 dicembre 2013

Nella comunicazione di reintegro devono essere specificate le mansioni nelle quali il lavoratore verrà adibito


Nella sentenza n.26519 del 27 novembre 2013 la Corte di Cassazione ha ritenuto corretto il comportamento di un lavoratore che, in seguito ad una sentenza che ne aveva riconosciuto il diritto ad essere reintegrato in azienda dopo un licenziamento illegittimo,  si era rifiutato di rientrare in servizio fino a quando il datore di lavoro non gli avesse comunicato alcuni chiarimenti sulla propria posizione lavorativa ed, in particolare, sulle mansioni nelle quali sarebbe stato ricollocato.

Al termine di un precedente iter giudiziario ad un dipendente della Rete Ferroviaria Italiana s.p.a., licenziato illegittimamente, era stato riconosciuto il diritto alla reintegrazione nel posto di lavoro.

Il lavoratore aveva però rifiutato l’invito del datore di lavoro a riprendere il servizio perché, nonostante una richiesta formale, non aveva ricevuto alcuna indicazione sulle condizioni lavorative nelle quali sarebbe stato reintegrato.

In riforma  della sentenza del Tribunale di Ascoli Piceno, la Corte di Appello di Ancona aveva accolto le richieste del lavoratore, dichiarando il rapporto di lavoro non cessato in seguito al mancato rientro in servizio, ed aveva condannato l’azienda al pagamento, oltre degli accessori di legge, delle spese di lite del doppio grado di giudizio.

La Corte di Appello di Ancona aveva attestato che nel corso di un incontro tra il dipendente ed un funzionario dell’azienda vi fosse stato un effettivo invito a riprendere servizio. Tuttavia, la successiva inattività del lavoratore non poteva essere addebitata ad un rifiuto espresso dello stesso per fatti concludenti, avendo egli richiesto preventive specificazioni e manifestato la volontà di attendere, prima della reintegra, una comunicazione scritta del datore di lavoro a proposito delle future condizioni lavorative.

Di conseguenza il giudice di Appello aveva ritenuto l’azienda inadempiente all’obbligo di reintegrazione, fatto che aveva reso irrilevante il successivo comportamento del lavoratore, dal momento che la mancata risposta della richiesta di specificazioni aveva costituito la mancata attuazione dell’obbligo di reintegrazione.

In seguito alla pronuncia di secondo grado, Rete Ferroviaria Italiana s.p.a aveva ricorso per cassazione, lamentando che la Corte di merito aveva fondato la propria decisione sull’assunto che l’incontro con il dirigente aziendale non avesse comportato un’effettiva reintegra, sicché doveva considerarsi irrilevante la circostanza che il lavoratore, dopo l’avvenuto “invito alla reintegra”, non si fosse presentato sul luogo di lavoro, lasciando trascorrere il termine di trenta giorni di cui all’art. 18 St. lav.

L’azienda rilevava, inoltre, che in base al richiamato art. 18 St. lav., a carico del datore di lavoro sussiste unicamente l’obbligo di invitare il dipendente a riprendere il lavoro, mentre il lavoratore ha l’onere di riprendere servizio entro trenta giorni dal ricevimento dell’invito datoriale.  Nella specie, invece, la Corte d’appello, pur riconoscendo che l’azienda avesse adempiuto all’obbligo dell’invito,  aveva tuttavia ritenuto, contraddittoriamente, giustificato  il comportamento del lavoratore successivo all’incontro con il dirigente aziendale preposto, nonostante fosse certo che il dipendente avesse lasciato decorrere il suindicato termine di trenta giorni.

La pronuncia della Cassazione
La Suprema Corte ha ritenuto infondate le doglianze dell’azienda, ricordando, preliminarmente, il consolidato indirizzo giurisprudenziale (1) in base al quale il termine di trenta giorni dalla ricezione dell’invito del datore di lavoro – entro il quale il lavoratore, a norma dell’art. 18 della legge 20 maggio 1970 n. 300, deve riprendere servizio, dopo avere ottenuto la reintegrazione nel posto di lavoro, se intende evitare la risoluzione del rapporto – è stabilito nell’interesse del lavoratore in quanto, tenendo conto delle difficoltà che egli potrebbe incontrare qualora gli fosse stata imposta l’immediata ripresa del servizio, gli concede uno spatium deliberando sul comportamento da seguire.

Ne consegue che la risoluzione del rapporto di lavoro, prevista dall’art. 18 della legge n. 300 del 1970 per l’ipotesi in cui il lavoratore illegittimamente licenziato non abbia ripreso servizio entro trenta giorni dal ricevimento del corrispondente invito del datore di lavoro, presuppone l’accertamento della sufficiente specificità dell’invito predetto, non essendo sufficiente la manifestazione di una generica disponibilità del datore di lavoro e dare esecuzione al provvedimento di reintegrazione (2).

Per la Suprema Corte è necessario, pur senza forme solenni,  un invito concreto e specifico a rientrare in azienda (3), nel luogo e nelle mansioni originarie (4)  ovvero in altre, se ricorrano comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive (5).

In base ai principi sopra enunciati la specificità del contenuto dell’invito datoriale si collega alla funzione del termine per la ripresa del servizio di cui all’art. 18 St. lav., che si sostanzia nel consentire al lavoratore di decidere con agio il comportamento da tenere, avendo ben presenti tutti gli elementi propri della posizione lavorativa offertagli, dato il suo diritto a rientrare nel luogo e nelle mansioni originarie e di potere, eventualmente, essere adibito a mansioni diverse solo in caso di ricorrenza di comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive.

Per quanto riguarda il caso di specie, il lavoratore, durante l’incontro con il referente aziendale, aveva richiesto specificazioni sulla posizione lavorativa che avrebbe ricoperto in seguito alla reintegra e, non avendo ottenuto risposte al riguardo, ha manifestato l’ intenzione di voler attendere la comunicazione scritta e di volerne verificare il contenuto con il proprio legale.

Prima della scadenza del termine, il legale del lavoratore aveva inviato al datore di lavoro una lettera nella quale aveva formalizzato la suddetta richiesta di chiarimenti, rimasta però inevasa.

Di conseguenza, la Corte di Appello, a detta della Cassazione, aveva correttamente ritenuto che l’azienda avesse tenuto un comportamento non conforme all’art. 18 St. lav., dal momento che aveva privato il lavoratore delle condizioni necessarie per effettuare la propria scelta con cognizione di causa ed, inoltre, aveva del tutto ignorato la lettera del legale del lavoratore, che, invece, doveva essere considerata come un elemento del tutto idoneo ad escludere qualsiasi comportamento inerte dell’interessato.

Dunque, la richiesta dei dovuti chiarimenti in ordine alla posizione lavorativa offerta in seguito ad un invito datoriale privo di specificità (quale è quello in oggetto) è da considerarsi efficace – al fine di escludere l’inerzia del lavoratore – anche se  effettuata dal legale del lavoratore stesso.

Sulla base di tali considerazioni la Corte di Cassazione ha respinto il ricorso dell’azienda ed ha condannato la società al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate in 100,00 € per esborsi più 3000,00 € per compensi professionali, oltre accessori come per legge.

 Valerio Pollastrini


(1)   - vedi, per tutte: Cass. 11 maggio 1982, n. 2952;

(2)   - vedi, fra le tante: Cass. 24 marzo 1987, n. 2857; Cass. 20 febbraio 1988, n. 1826; molte altre conformi, anche Cass. 29 luglio 1998, n. 7448;

(3)   - Cass. 20 ottobre 1987 n. 7733, 13 gennaio 1993 n. 314, 19 giugno 1993 n. 6837;

(4)   - Cass. 29 maggio 1995 n. 5993;

(5)   - Cass. 29 luglio 1998, n. 7448;

lunedì 16 dicembre 2013

Decreto Flussi 2013 - Nuove quote di ingresso


Dal 17 dicembre 2013 sarà possibile la pre-compilazione delle domande relative alle nuove quote di ingresso dei lavoratori extracomunitari.

In una nota il Ministero del lavoro ha annunciato che il 13 dicembre la Corte dei Conti ha registrato il Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri, concernente la "Programmazione transitoria dei flussi di ingresso dei lavoratori non comunitari per lavoro non stagionale nel territorio dello Stato per l'anno 2013".

 Il Decreto è attualmente in corso di pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale.

Il Ministero ha chiarito che, in base al nuovo Decreto, sono ammessi in Italia 17.850 lavoratori stranieri per motivi di lavoro subordinato non stagionale e di lavoro autonomo.

La quota complessiva è stata così ripartita:

-         3.000 lavoratori stranieri che abbiano completato programmi di formazione ed istruzione nei Paesi d'origine ai sensi dell'art. 23 del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286;

-         200 lavoratori stranieri partecipanti all'esposizione Universale di Milano del 2015;

-         2.300 lavoratori autonomi appartenenti alle seguenti categorie: imprenditori che svolgono attività di interesse per l'economia italiana; liberi professionisti riconducibili a professioni vigilate oppure non regolamentate ma rappresentative a livello nazionale e comprese negli elenchi curati dalla Pubblica amministrazione; figure societarie, di società non cooperative, espressamente previste dalla normativa vigente in materia di visti d'ingresso; artisti di chiara fama internazionale, o di alta qualificazione professionale, ingaggiati da enti pubblici oppure da enti privati; cittadini stranieri per la costituzione di imprese "start-up innovative" ai sensi della legge 17 dicembre 2012 n. 221, in presenza dei requisiti previsti dalla stessa legge e a favore dei quali sia riconducibile un rapporto di lavoro di natura autonoma con l'impresa; 

-         100 lavoratori stranieri per motivi di lavoro subordinato non stagionale e di lavoro autonomo di origine italiana per parte di almeno uno dei genitori fino al terzo grado di linea diretta di ascendenza, residenti in Argentina, Uruguay, Venezuela e Brasile

In aggiunta alle quote appena riepilogate, altre 12.250 unità sono state complessivamente riservate a coloro che devono convertire in lavoro subordinato il permesso di soggiorno già posseduto ad altro titolo.

La presentazione della domande potrà avvenire esclusivamente attraverso le modalità telematiche previste nel sito https://nullaostalavoro.interno.it.

Nonostante le domande potranno essere inviate solamente a partire dal giorno successivo alla pubblicazione del Decreto sulla Gazzetta Ufficiale, dalle ore 8,00 del 17 dicembre 2013 sarà disponibile l'applicativo per la pre-compilazione dei moduli.

Il Ministero chiarisce, infine, che il termine ultimo per la presentazione delle domande è fissato alla scadenza dell’ottavo mese dalla data di pubblicazione del Decreto sulla Gazzetta Ufficiale. 

Valerio Pollastrini
 


Per maggiori informazioni consultare il Portale Integrazioni Migranti