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sabato 30 novembre 2013

Eccessivo il licenziamento del dipendente sorpreso a scaricare programmi da “eMule” con il pc dell’azienda


Nella sentenza n.26397 del 26 novembre 2013 la Corte di Cassazione ha ritenuto illegittimo il licenziamento irrogato  dalla Bristol Myers Squibb di Roma ad un dipendente che, utilizzando il pc dell’ufficio, aveva scaricato da “eMule”  alcuni programmi per fini personali, senza che l’azienda l’avesse preventivamente autorizzato ad installare il software.

Secondo la tesi datoriale, la condotta del lavoratore, perpetrata in aperta violazione della policy aziendale e del codice di comportamento interno, aveva inoltre posto in pericolo la riservatezza dell’azienda.

Al termine dei due gradi di giudizio di merito  il recesso era stato dichiarato illegittimo e, conseguentemente, il lavoratore era stato reintegrato in azienda. 

La società aveva quindi ricorso in Cassazione, sostenendo che l’installazione e l’utilizzo di “eMule” sul pc aziendale avesse leso irreparabilmente l’elemento fiduciario alla base del rapporto di lavoro.

La Suprema Corte ha però confermato quanto già disposto dal giudice d’appello, ritenendo che, nel caso di specie, la condotta del dipendente non fosse di una gravità tale da giustificare l’adozione della sanzione espulsiva.

Valerio Pollastrini

venerdì 29 novembre 2013

Licenziamento disciplinare per attività extralavorativa svolta durante l’assenza per malattia


Nella sentenza n.26290 del 25 novembre 2013 la Corte di Cassazione ha confermato la sussistenza della giusta causa di licenziamento del dipendente che, assente per malattia, svolga attività extralavorativa che possa pregiudicarne la  pronta guarigione.

Il caso in commento è quello di un lavoratore che, sulla base delle riprese video effettuate da una agenzia investigativa privata, era stato licenziato per aver svolto, in concomitanza con l’assenza per malattia, altra attività lavorativa all’esterno della pizzeria nella quale lavorava la moglie.

Il dipendente aveva contestato la legittimità del  recesso in sede giudiziale, chiedendo la condanna della società alla reintegra  nel posto di lavoro ed al pagamento della conseguente indennità risarcitoria del danno.

Dopo il rigetto della domanda da parte del Tribunale di Verona, anche la Corte di Appello di Venezia aveva confermato la sussistenza della giusta causa di licenziamento.

Il lavoratore aveva quindi proposto ricorso per la cassazione del giudizio di merito, lamentando  che la Corte territoriale avrebbe omesso di attribuire la giusta rilevanza al fatto che l’attività svolta nel periodo di malattia non fosse a favore di terzi, in quanto limitata a fornire un aiuto alla moglie in compiti come versare la spazzatura nei cassonetti o raccogliere i mozziconi di sigaretta dal piazzale esterno con la scopa e la paletta che, a suo dire, non potevano considerarsi come  “attività lavorativa”.

Il ricorrente si doleva, inoltre, del giudizio di proporzionalità espresso dalla Corte di merito, evidenziando che il fatto contestato non fosse tanto grave da giustificare la massima sanzione espulsiva, risultando  ascrivibile, semmai,  ad una mera impudenza.

La Cassazione ha ritenuto infondati tali motivi di ricorso.

La Corte di legittimità ha ricordato, innanzitutto,  che il lavoratore al quale sia contestato in sede disciplinare di avere svolto un altro lavoro durante un’assenza per malattia ha l’onere di dimostrare la compatibilità di tale attività con la malattia impeditiva della prestazione lavorativa contrattuale e la sua inidoneità a pregiudicare il recupero delle normali energie psicofisiche, restando peraltro le relative valutazioni riservate al giudice del merito all’esito di un accertamento da svolgersi non in astratto ma in concreto (1).

La Suprema Corte ha inoltre osservato che non può ritenersi estraneo al giudizio, vertente sul corretto adempimento dei doveri di buona fede e correttezza gravanti sul lavoratore, un comportamento che, inerente ad attività extralavorativa, denoti l’inosservanza di doveri di cura e di non ritardata guarigione, oltre ad essere dimostrativa dell’inidoneità dello stato di malattia ad impedire comunque l’espletamento di un’attività ludica o lavorativa (2).

Nel caso di specie, il ricorrente aveva incentrato le proprie doglianze sulla scarsa rilevanza dei compiti svolti presso la pizzeria, a suo dire non riconducibile ad una vera e propria “attività lavorativa”, mentre il nucleo centrale della decisione impugnata era costituito dalla probabilità che l’impegno fisico assunto dal lavoratore, interessante particolarmente gli arti superiori, potesse avere  un’incidenza peggiorativa sulla malattia (trauma distensivo della spalla destra) per la quale egli si era assentato dal lavoro.

Sul punto, infatti, la Corte territoriale aveva significativamente evidenziato che lo svolgimento delle attività suddette era avvenuto nei giorni 29 aprile, 1, 18, 20 e 21 maggio del 2006, durante i quali il ricorrente era risultato assente dal lavoro per malattia ed infortunio e che tale assenza si era protratta fino al 31 maggio per il permanere del dolore alla spalla infortunata.

La Cassazione ha confermato, in sostanza, quanto già affermato da tempo a proposito del fatto che anche il mero pericolo di aggravamento delle condizioni di salute o di ritardo nella guarigione del lavoratore può configurare un grave inadempimento comportante un serio pregiudizio all’interesse del datore di lavoro, risultando violati gli obblighi di buona fede e correttezza nell’esecuzione del rapporto di lavoro allorché la natura dell’infermità sia stata giudicata, con valutazione ex ante, incompatibile con la condotta tenuta dal dipendente (3).

Tale principio rende senza dubbio corretto il giudizio della Corte territoriale, anche in considerazione del prolungamento dell’assenza oltre la iniziale prognosi della certificazione medica.

In conclusione, nel comportamento del lavoratore, il quale avrebbe dovuto astenersi da qualsiasi condotta che potesse pregiudicare le sue prospettive di guarigione, era effettivamente ravvisabile un colpevole inadempimento, di gravità tale da inficiare radicalmente il rapporto fiduciario, e, pertanto, il giudice del merito, ai fini della valutazione di proporzionalità, ha esattamente tenuto conto della “prova positiva” della incompatibilità tra l’attività svolta e la malattia derivante dall’infortunio.

Per tali motivazioni la Cassazione ha respinto il ricorso e, in ragione della soccombenza, ha condannato il lavoratore al pagamento delle spese in favore dell’azienda, liquidate in  50,00 € per esborsi e 3.500,00 € per compensi professionali, oltre accessori di legge.

Valerio Pollastrini

 
(1)   - Cass. 19 dicembre 2000, n. 15916 ed in senso conforme Cass. 13 aprile 1999, n. 3647;

(2)   - ctr. Cass. 21 aprile 2009, n. 9474, con cui è stata cassata la decisione della corte territoriale che aveva ritenuto non contrastante con i doveri del dipendente nel periodo malattia la condotta di un lavoratore che, pendente un ciclo riabilitativo per l’insorgenza di coxoartrosi, guidava una moto di grossa cilindrata, prendeva bagni di mare e prestava attività di direttore sanitario presso altro presidio sanitario;

(3)   - cfr. in tal senso Cass. 19 dicembre 2006, n. 27104;

Pagamento contributi colf: ora puoi farlo anche dal tuo smartphone


Con la News del 28 novembre 2013 l’Inps ha reso nota la possibilità per i datori di lavoro domestico di effettuare il pagamento dei contributi di colf e badanti tramite smartphone.

L’ultimo aggiornamento della PDA Application “Inps Servizi Mobile” è infatti scaricabile da ieri dagli store per apple ed android.

I contributi potranno essere pagati con le carte di credito VISA.

Procedura – “Dopo avere selezionato il servizio “Pagamento Lavoratori domestici” dal menu dell’app Servizi Mobile, si accede al nuovo servizio inserendo il proprio codice fiscale e il proprio codice PIN. Si visualizza dapprima la schermata con le Avvertenze sul servizio, corredata da due pulsanti: il primo per conoscere il costo operazione, che è pari all’1,275% dell’importo da pagare, il secondo per procedere al pagamento. Effettuata nella schermata successiva la scelta tra rapporti di lavoro domestico Attivi o Cessati, nell’ipotesi di selezionare Attivi, si aprirà la schermata con i dati di tutti i rapporti di lavoro in essere.
Selezionando il rapporto di lavoro per il quale si intende pagare i contributi, vengono visualizzati i dati del lavoratore e il menu per scegliere il trimestre di riferimento dell’anno, con il dettaglio delle settimane di lavoro e l’importo della quota associativa da sommare, se si è iscritti ad Associazioni datoriali come, ad esempio, Ebilcoba. A questo punto, utilizzando il pulsante “Paga” si può effettuare il pagamento visualizzando prima la schermata con il riepilogo dei dati e poi quella con l’esito dell’operazione
”.
L’Istituto ha informato inoltre che il servizio sarà presto accessibile anche dal Menu Servizi del sito Mobile m.inps.it.

venerdì 22 novembre 2013

È legittimo il licenziamento di chi registra le conversazioni dei colleghi a loro insaputa


Nella sentenza n.26143 del 21 novembre 2013 la Cassazione ha ritenuto legittimo il licenziamento irrogato al medico ritenuto responsabile della grave situazione di sfiducia, sospetto e mancanza di collaborazione venutasi a creare all'interno dell'equipe medica di chirurgia plastica.

Il caso è quello di un medico alle dipendenze dell’azienda ospedaliera Ordine Mauriziano di Torino.

L'uomo era stato accusato di aver registrato brani di conversazione di numerosi suoi colleghi senza che questi ne fossero a conoscenza, violando dunque il loro diritto alla riservatezza, per poi utilizzarli in sede giudiziaria, a supporto di una denuncia per mobbing che egli stesso aveva presentato nei confronti del primario.

Sia il Tribunale che la Corte d'Appello di Torino avevano confermato il licenziamento, rilevando che la condotta tenuta dall'uomo, ledendo irrimediabilmente vincolo fiduciario con la parte datoriale, integrasse gli estremi della giusta causa di recesso.

La Corte di Cassazione, successivamente adita dal lavoratore, ha confermato le motivazioni dei giudici di merito.

Per la Suprema Corte le risultante processuali avevano evidenziato che il ricorrente avesse violato il diritto alla riservatezza dei suoi colleghi, avendo egli registrato e diffuso le loro conversazioni intrattenute in ambito strettamente lavorativo alla presenza del primario ed anche nei loro momenti privati svoltisi negli spogliatoi o nei locali di comune frequentazione, utilizzandole strumentalmente per una denunzia di mobbing rivelatasi, tra l'altro, infondata.

La condotta del medico aveva causato un clima di mancanza di fiducia indispensabile per il miglior livello di assistenza e, quindi, funzionale alla qualità del servizio, il tutto con grave ed irreparabile compromissione anche del rapporto fiduciario tra  dipendente ed l'azienda.

Valerio Pollastrini

Il licenziamento è legittimo anche se il lavoratore non ritira la raccomandata


Nella sentenza n.25824 del 18 novembre 2013 la Cassazione ha affrontato la questione della legittimità del licenziamento per giusta causa nonostante la mancata ricezione da parte del lavoratore della lettera  di contestazione disciplinare.

Il caso in oggetto è quello che ha riguardato un dipendente di Poste Italiane al quale il Giudice del lavoro aveva riconosciuto il diritto a rientrare in azienda in seguito all’illegittimità del contratto a termine con il quale era stato assunto.  

In applicazione della sentenza, l’azienda aveva provveduto a richiamare in servizio il lavoratore interessato a mezzo raccomandata con avviso di ritorno.

In assenza di risposta, dopo aver constatato la mancata ripresa dell’attività lavorativa, il datore di lavoro aveva provveduto a contestare al dipendente,  sempre mediante comunicazione postale, l’assenza ingiustificata.

Anche in questo caso la comunicazione di contestazione era risultata “in giacenza” e, dopo 10 giorni di assenza ingiustificata, l’azienda aveva provveduto a licenziare il lavoratore per giusta causa.

Il lavoratore  aveva quindi contestato la legittimità del recesso, chiedendo la reintegrazione nel posto di lavoro, con le conseguenze risarcitorie previste dalla legge.

Dopo il rigetto della domanda, sia in primo grado, che nel giudizio di appello, il dipendente si era rivolto alla Corte di Cassazione.

In particolare, il lavoratore contestava la regolarità  della comunicazione dell’invito a riprendere servizio, nonché quella della lettera di contestazione disciplinare, in quanto  la società aveva utilizzato per le suddette comunicazioni l’indirizzo che il ricorrente aveva indicato come propria residenza nel precedente ricorso sulla legittimità del contratto a termine.

Secondo il giudice di Appello la variazione del luogo di residenza imponeva all’interessato di darne notizia alla società, sicché era insostenibile la tesi che la comunicazione dovesse essere effettuata presso il difensore nel domicilio eletto nel ricorso o alla diversa residenza indicata in altra comunicazione che aveva preceduto lo stesso, non prevedendo la norma di riferimento gerarchie di sorta e non essendo ravvisabili violazioni delle clausole generali di correttezza e buona fede, dalle quali, comunque, sarebbero discese unicamente conseguenze risarcitone.

Il lavoratore, invece, sosteneva che il mittente avesse l’onere di utilizzare le modalità della dichiarazione recettizia più idonee a realizzare gli effetti che la stessa era destinata a produrre, scegliendo il luogo utile per la ricezione, che, per preventiva comunicazione dell’interessato o per pattuizione, risultasse in concreto nella sfera di dominio o controllo del destinatario.

In un momento successivo alla risoluzione del contratto a termine poi impugnato, il lavoratore aveva indicato alla società il nuovo indirizzo di residenza  e, con lettera  avente ad oggetto la richiesta di convocazione per il Tentativo Obbligatorio di Conciliazione, aveva eletto domicilio presso il proprio avvocato.

A suo dire, al momento della disposizione della riammissione in servizio, la società era, quindi, in possesso di tutti i recapiti e non rispondeva a realtà che il ricorrente non avesse comunicato variazioni dell’indirizzo originario.

Il ricorrente osservava inoltre che, nonostante la conoscenza della giacenza della corrispondenza inviata all’indirizzo precedente, la società  aveva reiterato le comunicazioni proprio presso lo stesso  domicilio nel quale  non era stato curato il ritiro, senza contattare il lavoratore presso uno dei recapiti alternativi.

Secondo il lavoratore il recesso era, pertanto, privo dei requisiti di giusta causa perché egli  non era mai stato posto – dolosamente – nella condizione di scegliere di adempiere alla sua obbligazione.

A proposito delle doglianze del lavoratore, la Cassazione ha preliminarmente ricordato che risulta conforme ad un principio già affermato in sede di legittimità, quello secondo cui, qualora la comunicazione del provvedimento di licenziamento venga effettuata al dipendente mediante lettera raccomandata spedita al suo domicilio, essa, a norma dell’art. 1335 c.c., si presume conosciuta dal momento in cui giunge al domicilio del destinatario, ovvero, nel caso in cui la lettera raccomandata non sia stata consegnata per assenza del destinatario e di altra persona abilitata a riceverla, dal momento del rilascio del relativo avviso di giacenza presso l’ufficio postale (1).    

Nel caso di specie, risulta che le comunicazioni presso l’indirizzo conosciuto dall’azienda erano state restituite al mittente per compiuta giacenza e per la Suprema Corte la valutazione del giudice di merito circa la sufficienza di tale attestazione, anche in considerazione della mancanza di contrari elementi di prova forniti dalla controparte, si rivela del tutto corretta e si sottrae perciò ad ogni censura.

L’operatività del principio di presunzione di conoscenza dell’atto all’indirizzo del destinatario si realizza, infatti, quando il plico sia effettivamente pervenuto a destinazione, per il solo fatto oggettivo dell’arrivo della dichiarazione nel luogo di destinazione, ma non quando l’agente postale, ancorché errando, l’abbia rispedito al mittente, dichiarando essere il destinatario sconosciuto (2).

D’altra parte, ai fini dell’applicazione dell’art. 1335 cod. civ,, è sufficiente osservare che tale disposizione consente di superare la presunzione di conoscenza ivi prevista soltanto mediante la prova, da parte del destinatario, di essere stato, senza colpa, nell’impossibilità di avere avuto notizia dell’atto. Il ricorrente, invece,  non contesta che la notificazione era stata eseguita al proprio indirizzo, ma assume che tale prova era in atti, risultando dall’esito di compiuta giacenza della raccomandata, che dava atto delle formalità compiute dall’ufficiale giudiziario.

Per la Cassazione si tratta di un argomento non convincente, atteso che la prova richiesta dalla legge, per poter vincere la presunzione legale, deve necessariamente avere ad oggetto un fatto o una situazione che spezza o interrompe in modo duraturo il collegamento esistente tra il destinatario ed il luogo di destinazione della comunicazione e deve, altresì, dimostrare che tale situazione è incolpevole, non potendo cioè essere superata dall’interessato con l’uso dell’ordinaria diligenza (3).

La Suprema Corte, in proposito, rileva che  il ricorrente non aveva fornito né allegato alcun fatto diretto a dimostrare di non aver potuto avere conoscenza effettiva dell’atto, né che tale mancanza fosse ascrivibile ad un comportamento incolpevole. Il lavoratore aveva cercato invece di imputare al mittente una colpevole utilizzazione di un indirizzo che, in base a regole di correttezza e buona fede desunte da un ricostruzione dei fatti del tutto personale, doveva essere utilizzato  dalla società   successivamente agli altri indicati, tra cui il domicilio eletto presso il difensore, che, peraltro, concerneva le comunicazioni relative al giudizio e non quelle successive allo stesso destinate al lavoratore.

Alla stregua delle esposte argomentazioni, la Cassazione ha rigettato il ricorso, confermando la legittimità del licenziamento, ed ha condannato il lavoratore  al pagamento delle spese di lite, liquidate in  100,00 € per esborsi e 3000,00 € per compensi professionali, oltre accessori come per legge.

Valerio Pollastrini

Legittimo il licenziamento della cassiera che accumula punti con la spesa dei clienti


Nella sentenza n.24588 del 31 ottobre 2013 la  Cassazione ha confermato quanto disposto dalla Corte di Appello di Catania che aveva stabilito la legittimità del licenziamento irrogato alla cassiera di un supermercato per aver caricato sulla propria carta punti la spesa dei clienti privi della tessera fedeltà.

La lavoratrice, nel caso di specie, aveva utilizzato in modo improprio la “Carta Club Sma” per acquisti di clienti sprovvisti della carta, con conseguente accumulo in proprio favore dei punti necessari al ritiro di 88 premi tra il 2002 e il 2003 e 4 premi nel mese di aprile 2004.

Per la Suprema Corte i giudici di merito avevano correttamente ritenuto che il comportamento della dipendente, oltre a violare il codice disciplinare interno, che vietava espressamente una simile  utilizzazione della carta, fosse, di per sé, idoneo a ledere  irreparabilmente il vincolo fiduciario posto alla base del rapporto di lavoro.

La censura posta  dalla lavoratrice a proposito della mancata affissione del codice disciplinare è stata  ritenuta irrilevante dalla Cassazione, per la quale  i giudici di Appello avevano agito in conformità con il consolidato indirizzo giurisprudenziale che ritiene non necessaria la suddetta affissione in caso di recessi motivati da comportamenti contrari all’etica comune o comunque concretizzanti una violazione dei doveri fondamentali connessi al rapporto di lavoro.

Anche le doglianze  sulla eccessiva gravità della sanzione licenziamento rispetto alla condotta contestata sono state disattese dalla Suprema Corte, in quanto nel giudizio di Appello tale aspetto era stato valutato tenendo conto sia della reiterazione del comportamento vietato che della idoneità dello stesso a legittimare il recesso anche in ragione delle delicate mansioni svolte dalla cassiera.

Valerio Pollastrini

mercoledì 20 novembre 2013

Obbligo contribuzione Enasarco per gli agenti che operano all’estero.


Il Ministero di lavoro, in risposta ad Interpello n.32/2013 avanzato dalla Cofimi Impresa, ha espresso il proprio parere a proposito dell’ obbligo di contribuzione Enasarco per gli agenti che operano all’estero.

L’Ente interpellato ha ricordato, innanzitutto, le fonti che regolamentano la contribuzione ENASARCO, rappresentate dalla L. n. 12/1973 e dal relativo Regolamento di esecuzione previsto dall’art. 40 della citata Legge.

La L. n. 12/1973 circoscrive  l’obbligo di iscrizione all’ ENASARCO a “tutti gli agenti ed i rappresentanti di commercio che operano sul territorio nazionale in nome e per conto di preponenti italiani o di preponenti stranieri che abbiano la sede o una qualsiasi dipendenza in Italia; Sono altresì obbligatoriamente iscritti all'ENASARCO gli agenti ed i rappresentanti di commercio italiani che operano all’estero nell’interesse di preponenti italiani”.

Il Regolamento, invece,  per quanto riguarda l’ambito applicativo dell’obbligo di iscrizione, stabilisce che “sono obbligatoriamente iscritti alla Fondazione tutti i soggetti  che operino sul territorio nazionale in nome e per conto di preponenti italiani o di preponenti stranieri che abbiano la sede o una qualsiasi dipendenza in Italia”.

A detta del Ministero la previsione del regolamento  “restringe” l’ambito di operatività dell’obbligo contributivo, escludendo dal novero dei soggetti tenuti all’iscrizione all’ENASARCO “gli agenti ed i rappresentanti di commercio italiani che operano all’estero nell’interesse di preponenti italiani”.

Per la definizione dell’obbligo contributivo di tali soggetti, l’Ente interpellato chiarisce che occorre fare riferimento all’art. 2, comma 2 del Regolamento citato che opera un esteso rimando alle norme comunitarie e alle convenzioni internazionali in materia di coordinamento dei sistemi di sicurezza sociale.

Si tratta in tal caso delle disposizioni del Regolamento (CE) n. 883/2004, come modificato dal Regolamento (CE) n. 988/2009, che afferma il principio generale dell’unicità della legislazione applicabile in materia di sicurezza sociale e che, per i lavoratori autonomi, stabilisce il principio della lex loci laboris ovvero della soggezione alla legislazione dello Stato membro in cui l’attività è esercitata.

In tal senso, l’obbligo contributivo ENASARCO vale per l’agente italiano o straniero che opera in Italia in nome e/o per conto di preponenti italiani o stranieri ma non per l’agente che opera all’estero nell’interesse di preponenti italiani – anche se ciò era previsto dall’art. 5, comma 1, L. n. 12/1973 – per i quali si applica l’art. 13, par. 2, del Regolamento (CE) n. 883/2004 che impone alla persona che esercita abitualmente un’attività lavorativa autonoma in due o più Stati membri la soggezione:

- alla legislazione dello Stato membro di residenza, se esercita una parte sostanziale della sua attività in tale Stato membro;

- alla legislazione dello Stato membro in cui si trova il centro di interessi delle sue attività, se non risiede in uno degli Stati membri nel quale esercita una parte sostanziale delle sue attività.

Al riguardo si fa presente che il Regolamento (CE) n. 987/2009, all’art. 14, par. 6, precisa che per “persona che esercita abitualmente un’attività lavorativa autonoma in due o più Stati membri” si intende “una persona che esercita, contemporaneamente o a fasi alterne, una o più attività lavorative autonome distinte, a prescindere dalla loro natura, in due o più Stati membri”.

Il medesimo Regolamento, inoltre, all’art. 14, par. 8, prevede che la “parte sostanziale di un’attività autonoma” esercitata in uno Stato membro consiste in una “parte quantitativamente sostanziale dell’insieme delle attività del lavoratore autonomo, senza che si tratti necessariamente della parte principale di tali attività” con riguardo ai criteri indicativi di fatturato, orario di lavoro, numero di servizi prestati e reddito. Se, in base a tali criteri, non si raggiunge il 25% del valore dell’attività, il Regolamento esclude che una parte sostanziale delle attività sia svolta nello Stato membro in questione.

Dispone, infine, il Reg. (CE) n. 987/2009, all’art. 14, par. 9, che per “centro di interessi” dell’attività di un lavoratore autonomo vanno considerati “tutti gli elementi che compongono le sue attività professionali, in particolare il luogo in cui si trova la sede fissa e permanente delle attività dell’interessato, il carattere abituale o la durata delle attività esercitate, il numero di servizi prestati e la volontà dell’interessato quale risulta da tutte le circostanze”.

Il Ministero precisa, inoltre, che per gli agenti che operano abitualmente in Italia e si recano a svolgere un’attività affine esclusiva all’estero per massimo 24 mesi, il Regolamento (CE) n. 833/2004, all’art. 12, par. 2, prevede la soggezione alla legislazione del primo Stato membro.

Al termine di questa analisi normativa, è possibile dunque riassumere che l’obbligo di iscrizione all’Enasarco risulta riferibile:

- agli agenti di commercio che operano sul territorio italiano in nome e per conto di preponenti italiani o stranieri che abbiano la sede o una qualsiasi dipendenza in Italia;

- agli agenti di commercio italiani o stranieri che operano in Italia in nome e/o per conto di preponenti italiani o stranieri, anche se privi di sede o dipendenza in Italia;

- agli agenti che risiedono in Italia e vi svolgono una parte sostanziale della loro attività;

- agli agenti che non risiedono in Italia, purché abbiano in Italia il proprio centro d’interessi;

- agli agenti che operano abitualmente in Italia ma si recano a svolgere attività esclusivamente all’estero, purché la durata di tale attività non superi i 24 mesi.

Il Ministero ha infine chiarito che, per quanto concerne la  categoria dei preponenti operanti in Paesi extra UE, gli stessi saranno tenuti all’iscrizione previdenziale in Italia solo laddove ciò sia previsto da trattati o accordi internazionali sottoscritti e vincolanti il singolo Paese di appartenenza.

Valerio Pollastrini

Criteri di computo dei rapporti di lavoro a tempo determinato


Con Interpello n.30/2013 Confindustria ha richiesto al Ministero del lavoro chiarimenti sul criterio utile per il computo dei rapporti di lavoro a tempo determinato, ai fini dell’applicazione di specifiche previsioni di legge, quali:

- art. 8, D.Lgs. n. 368/2001 per il riconoscimento dei diritti sindacali di cui all’art. 35, L. n. 300/1970;

- art. 12, D.Lgs. n. 25/2007, sulla disciplina dell’informazione e della consultazione dei lavoratori;

- art. 2, comma 2, D.Lgs. n. 113/2012, concernente i CAE (Comitati Aziendali Europei).

L’Ente interpellato ha preliminarmente esaminato le normative di riferimento richiamate nell’istanza, ricordando come, ai fini del riconoscimento dei diritti sindacali, “i limiti prescritti dal primo e dal secondo comma dell'articolo 35 della legge 20 maggio 1970, n. 300, per il computo dei dipendenti si basano sul numero medio mensile di lavoratori a tempo determinato impiegati negli ultimi due anni, sulla base dell'effettiva durata dei loro rapporti di lavoro”.

Analogamente, in ordine alla disciplina dell’informazione e della consultazione dei lavoratori,  l’art. 3, D.Lgs. n. 25/2007 prevede che “la soglia numerica occupazionale è definita nel rispetto delle norme di legge e si basa sul numero medio mensile dei lavoratori subordinati, a tempo determinato ed indeterminato, impiegati negli ultimi due anni, sulla base dell’effettiva durata dei loro rapporti di lavoro.

Il Ministero ha quindi affermato che dalla lettura delle disposizioni sopra indicate si evince che, ai fini della corretta determinazione della base di computo, occorre effettuare la somma di tutti i periodi di rapporto di lavoro a tempo determinato, svolti a favore del datore di lavoro nell’ultimo biennio e successivamente dividere il totale per 24 mesi. Il risultato così ottenuto consente infatti di determinare, così come richiesto dal Legislatore, il numero medio mensile dei lavoratori subordinati impiegati nell’arco di 24 mesi.

A titolo esemplificativo, nell’ipotesi di due lavoratori a tempo determinato con rapporti di lavoro rispettivamente pari a 12 per ciascuno nel corso degli ultimi due anni, si procederà a sommare la durata di ciascun rapporto (12 mesi + 12 mesi = 24 mesi ) per poi dividere tale risultato per 24 mesi (24 : 24 = 1 unità lavorativa). Ne consegue che il numero medio mensile dei lavoratori subordinati impiegati nell’arco di 24 mesi è pari a 1 unità.

Con le medesime modalità, nel caso di due lavoratori a termine con rapporti di lavoro rispettivamente pari a 12 e 16 mesi, si dovrà effettuare la somma di 12 mesi + 16 mesi = 28 mesi e divedere il totale sempre per 24 mesi (28 : 24 = 1,16) arrotondando il risultato ad una unità lavorativa; la soluzione segue infatti il criterio dell’arrotondamento per difetto nelle ipotesi in cui il risultato sia compreso tra 0,01 e 0,50, mentre qualora sia compreso tra 0,51 e 0,99 si procede all’arrotondamento ad unità (es. 1,50 = 1 unità; 1, 51 = 2 unità).

Per quanto attiene invece ai Comitati Aziendali Europei, nell’art. 2, comma 2, D.Lgs. n. 113/2012 il riferimento alla “ponderazione” non sembra modificare nella sostanza il criterio di computo contemplato dalle due disposizioni innanzi menzionate. Ai sensi di tale disposizione, infatti, “le soglie minime prescritte per il computo dei dipendenti si basano sul numero medio ponderato mensile di lavoratori impiegati negli ultimi due anni”, riferendosi in tal modo sia ai rapporti di lavoro a tempo determinato che a quelli a tempo indeterminato in linea con quanto stabilito dalla precedente disposizione normativa del 2007.

In conclusione, il Ministero ha chiarito  che il criterio di computo dei contratti a tempo determinato sopra descritto possa trovare applicazione nelle fattispecie richiamate dall’art. 8, D.Lgs. n. 368/2001, dall’art. 12, D.Lgs. n. 25/2007 e dall’art. 2, comma 2, D.Lgs. n. 113/2012.

Valerio Pollastrini

Escluso il lavoro a chiamata per le mansioni di interprete e traduttore di scuola di lingua


In assenza dei requisiti soggettivi ovvero oggettivi individuati dall’art. 34 del D.Lgs. n. 276/2003, le ipotesi in cui risulta ammissibile la stipulazione di contratti di lavoro intermittente sono declinate nell’elenco contenuto nella tabella allegata al Regio Decreto n. 2657/1923.

Il punto 38 della tabella citata, contempla le prestazioni svolte dagli “interpreti alle dipendenze di alberghi o di agenzie di viaggio e turismo, esclusi coloro che hanno anche incarichi o occupazioni di altra natura e coloro le cui prestazioni, a giudizio dell’Ispettorato corporativo, non presentino nella particolarità del caso i caratteri di lavoro discontinuo o di semplice attesa”.

Con l’Interpello n.31/2013 il Consiglio Nazionale dell’Ordine dei Consulenti del Lavoro ha chiesto al Ministero del lavoro se le figure dell’interprete e del traduttore che espletano la propria attività presso scuole o istituti di lingua possano essere assimilate a quella degli “interpreti alle dipendenze di alberghi o di agenzie di viaggio e turismo”, per la quale, come detto, il R.D. n. 2657/1923 dispone la legittimità del ricorso al lavoro a chiamata.

L’Ente interpellato ha preliminarmente ricordato che la terminologia utilizzata nel punto 38  evidenzia che le relative attività si riferiscono solo a prestazioni di interpretariato rese nell’ambito di strutture di tipo alberghiero ovvero presso agenzie di viaggio e del turismo, come confermato peraltro dall’esclusione espressa, contenuta nella medesima clausola, degli interpreti che svolgono anche incarichi o compiti di diversa natura a favore delle medesime strutture.

Sulla base di questa premessa, il Ministero ha, pertanto, escluso la possibile equiparazione della figura dell’interprete/traduttore impiegato presso scuole o istituti di lingua a quella degli interpreti alle dipendenze di alberghi o di agenzie di viaggio e turismo, ricordando, tuttavia, la possibilità di instaurare un rapporto di lavoro di natura intermittente anche in tali ambiti laddove il lavoratore sia in possesso dei requisiti anagrafici di cui all’art. 34 del D.Lgs. n. 276/2003 o qualora sia previsto dalla disciplina collettiva di settore.

Valerio Pollastrini

martedì 19 novembre 2013

Dal 15 dicembre in arrivo i rimborsi dal fisco per il 730


Attraverso un comunicato stampa, l'Agenzia delle Entrate ha reso note le date dei rimborsi 730 previsti per chi ha presentato il modello fiscale nel mese di settembre di quest’anno poiché privo di sostituto d’imposta nel 2013.

In base ai dati dell’Agenzia sono circa 96 mila i contribuenti che, non avendo più un datore di lavoro e vantando un credito fiscale, hanno usufruito dell’opportunità offerta dal Decreto del Fare (art. 51-bis del Dl n. 69/2013) di presentare il modello 730 Situazioni particolari (Sp), lo scorso settembre.

I contribuenti che hanno comunicato il proprio codice Iban, dal 15 dicembre riceveranno i rimborsi direttamente sul proprio conto corrente, mentre per tutti coloro che non hanno comunicato l’IBAN saranno disponibili dal 21 dicembre presso gli uffici postali i rimborsi in contanti.

L’Agenzia delle Entrate ha inoltre annunciato che dal 2014 i contribuenti che non hanno più un posto di lavoro, e quindi privi di un sostituto d’imposta a cui presentare il 730/4, potranno inoltrare la dichiarazione 730 non soltanto nel caso di somme a credito, ma anche nel caso di importi a debito.

Valerio Pollastrini

lunedì 18 novembre 2013

Estensione del diritto al congedo straordinario


In seguito alla Sentenza della Corte Costituzionale n. 203 del 3 luglio 2013 che ha sancito l’estensione del diritto al congedo di cui all’ art. 42, comma 5, del D.Lgs n.151/2001 anche ai parenti o affini entro il terzo grado conviventi con la persona in situazione di disabilità grave, l’Inps, con la News del 18 novembre 2013 ha riscritto la platea dei soggetti interessati al congedo straordinario per la cura delle  persone disabili in situazione di gravità.

Il congedo straordinario può dunque essere riconosciuto al familiare o affine entro il terzo grado convivente del disabile in situazione di gravità, in caso di mancanza, decesso o in presenza di patologie invalidanti degli altri soggetti individuati dalla norma, secondo un determinato ordine di “priorità” che vede al primo posto per il riconoscimento del beneficio il coniuge convivente della persona disabile e, in caso di mancanza di questi, il padre o la madre – anche adottivi o affidatari – del disabile;

L’Istituto ricorda, inoltre, che, a seguire, hanno diritto al beneficio, nell’ordine, figli, fratelli o sorelle e, infine, parenti o affini di terzo grado, purché conviventi e sempre nel caso in cui il coniuge convivente, entrambi i genitori, i figli conviventi e i fratelli o sorelle conviventi siano mancanti, deceduti o affetti da patologie invalidanti.

I requisiti soggettivi per il riconoscimento del congedo straordinario, unitamente alle modalità per la presentazione delle domande, sono descritti in dettaglio nella circolare n. 159 del 15 novembre 2013.

Valerio Pollastrini

Chiarimenti sui benefici contributivi per i disoccupati da oltre 24 mesi


In risposta all’Interpello n.9/2013 il Ministero del lavoro ha fornito alcuni chiarimenti in merito alla concessione dei benefici contributivi di cui all’art.8, c.9 della legge n.407/90.

Ad avanzare l’istanza era stato il Consiglio Nazionale dell’Ordine dei Consulenti del Lavoro che aveva chiesto se la disposizione normativa citata potesse trovare applicazione nel caso in cui la nuova assunzione riguardi ex dipendenti della medesima impresa, in possesso del requisito dello stato di disoccupazione, licenziati per diminuzione di personale ovvero che abbiano esercitato il diritto di recesso da un rapporto di lavoro part-time.

Il Ministero ha ritenuto opportuno ricordare preliminarmente che l’art. 8, comma 9, della L. n. 407/1990 contempla la possibilità di fruizione di benefici contributivi per un periodo pari a 36 mesi, nel caso in cui l’azienda assuma lavoratori con contratto a tempo indeterminato, anche in part-time, nel rispetto di un duplice ordine di requisiti.

In primo luogo, si deve trattare di “assunzioni di lavoratori disoccupati da almeno ventiquattro mesi o sospesi dal lavoro e beneficiari di trattamento straordinario di integrazione salariale da un periodo uguale a quello suddetto”; inoltre la modifica recentemente introdotta dalla L. n.92/2012, richiede che le medesime assunzioni non siano effettuate “in sostituzione di lavoratori dipendenti dalle stesse imprese licenziati per giustificato motivo oggettivo o per riduzione del personale o sospesi”.

In riferimento a tale ultima condizione,  il periodo da prendere in considerazione per la verifica di una eventuale sostituzione di lavoratori licenziati o sospesi va individuato nei sei mesi immediatamente precedenti all’assunzione.

E’ necessario inoltre segnalare che la L. n. 92/2012 ha introdotto alcuni principi di immediata applicazione in ordine alla fruizione degli incentivi, ivi compresi quelli di cui alla L. n. 407/1990.

L’art. 4, comma 12, della riforma stabilisce anzitutto che “gli incentivi non spettano con riferimento a quei lavoratori che siano stati licenziati, nei sei mesi precedenti, da parte di un datore di lavoro che, al momento del licenziamento, presenti assetti proprietari sostanzialmente coincidenti con quelli del datore di lavoro che assume ovvero risulti con quest’ultimo in rapporto di collegamento o controllo; in caso di somministrazione tale condizione si applica anche all'utilizzatore”.

Il successivo comma 13 stabilisce invece che “ai fini della determinazione del diritto agli incentivi e della loro durata, si cumulano i periodi in cui il lavoratore ha prestato l’attività in favore dello stesso soggetto, a titolo di lavoro subordinato o somministrato; non si cumulano le prestazioni in somministrazione effettuate dallo stesso lavoratore nei confronti di diversi utilizzatori, anche se fornite dalla medesima agenzia di somministrazione di lavoro (…) salvo che tra gli utilizzatori ricorrano assetti proprietari sostanzialmente coincidenti ovvero intercorrano rapporti di collegamento o controllo”.

Ciò premesso, il Ministero ha chiarito che in relazione all’ipotesi di assunzione di ex dipendente licenziato per riduzione di personale si ritiene che, se in capo al medesimo lavoratore si siano nuovamente configurati i requisiti di legge, nessuna preclusione può applicarsi al riconoscimento per intero del beneficio.

Se quindi il lavoratore perde lo stato di disoccupazione e poi lo riacquista, iniziando a maturare da zero un nuovo periodo di 24 mesi di disoccupazione, nel rispetto di ogni altra condizione prevista dalla legge, non può ostare al riconoscimento del beneficio il solo fatto che il lavoratore assunto ai sensi dell’art. 8, comma 9, L. n. 407/1990 fosse già stato alle dipendenze dello stesso datore di lavoro in un precedente rapporto agevolato. In tal caso l’agevolazione contributiva deve essere quindi riconosciuta per intero e non va, invece, contratta cumulando i periodi agevolati precedenti.

In ordine alla possibilità per il datore di lavoro di usufruire delle agevolazioni in esame nel caso in cui assuma “nuovamente, dopo alcuni mesi, un lavoratore part-time a 20 ore settimanali, precedentemente dimessosi e per il quale aveva già beneficiato delle agevolazioni medesime, nelle  fattispecie realizzatesi anteriormente all’entrata in vigore della L. n. 92/2012, si ritiene che il beneficio debba essere riconosciuto solo per il periodo residuo rispetto al limite massimo di fruizione dei 36 mesi, ciò in quanto non vi è stata interruzione dello stato di disoccupazione.

Si evidenzia, tuttavia, che successivamente al 18 luglio 2012, la fattispecie da ultimo prospettata non risulta più configurabile alla luce dell’intervenuta abrogazione – ad opera dell’art. 4, comma 33, lett. c), L. n. 92 – dell’art. 4, comma 1, lett. a), D. Lgs. n. 181/2000 nella parte in cui prevedeva la “conservazione dello stato di disoccupazione a seguito di svolgimento di attività lavorativa tale da assicurare un reddito annuale non superiore al reddito minimo personale escluso da imposizione”.

Valerio Pollastrini

sabato 16 novembre 2013

Disabili e lavoro: importante Sentenza dall’Europa contro le discriminazioni


La Corte di Giustizia dell’Unione Europea, con la sentenza dell’11 aprile 2013, (Cause Riunite C-335/11 e C-337/11, HK Danmark) ha recentemente affrontato il tema della nozione di handicap e di “soluzioni ragionevoli”, nell’ambito delle discriminazioni per disabilità.

La pronuncia in commento è stata originata dalle questioni pregiudiziali poste dal Giudice del Rinvio danese nell’ambito di un’azione giudiziaria promossa dal Sindacato HK Danmark, in nome e per conto di due lavoratrici che, a causa di dolori cronici non trattabili, si erano assentate per periodi prolungati, subendo per tale motivo il licenziamento  da parte dei rispettivi datori di lavoro.

Nei casi in questione le assenze erano state determinate anche a causa del mancato accoglimento da parte datoriale della richiesta delle lavoratrici di poter svolgere la prestazione a tempo parziale, unica modalità di espletamento della prestazione compatibile con la propria condizione soggettiva.

La questione posta al Giudice europeo concerne la nozione di “soluzioni ragionevoli”, prevista dall’articolo 5 della Direttiva 2000/78 del Consiglio dell’Unione Europea, “che stabilisce un quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro”, per verificare se questa fosse comprensiva anche di modifiche all’organizzazione del lavoro e, nello specifico, all’orario di lavoro.

Una simile tesi era stata contrastata dalle parti datoriali, per le quali, tale fattispecie, doveva essere interpretata in maniera restrittiva, limitata cioè  a profili di carattere logistico e di accessibilità degli ambienti e degli strumenti.

Altra questione affrontata nella sentenza  della Corte di Giustizia riguarda la non computabilità delle assenze per una malattia riconducibili ad handicap, ai fini del superamento del periodo di astensione dal lavoro che determina il licenziamento, pena la discriminatorietà dello stesso.

Anche quest’ultima interpretazione aveva trovato la resistenza dei datori di lavoro, secondo i quali lo stato di malattia non rientrerebbe nella nozione di handicap, ai sensi della citata Direttiva 2000/78.

Si tratta di due questioni che hanno offerto alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea l’occasione per analizzare le tecniche di tutela previste dall’ordinamento comunitario  in materia di discriminazioni per disabilità.

Giova a questo punto ricordare che la Direttiva 2000/78 non definisce la nozione di handicap e per tale motivo il Giudice danese ha chiesto alla Corte Europea se essa comprenda anche lo stato di salute di una persona che – a causa di menomazioni fisiche, mentali o psichiche – non possa svolgere la propria attività lavorativa, o se possa farlo solo in modo limitato, per un periodo di tempo probabilmente lungo o in modo permanente.

Si è  chiesto, inoltre, se la natura delle misure che il datore di lavoro deve adottare sia determinante per ritenere che lo stato di salute di una persona sia riconducibile alla nozione di handicap.

In passato la Corte di Giustizia era già stata chiamata ad esprimersi sulla nozione di handicap e, in particolare, sullo stato di malattia che determina lunghi stati di assenza e sulla riconducibilità di essa alla nozione di handicap.

Nel caso Chacón Navas/Eurest Colectividades SA del 2006 (Causa C-13/05) la Corte aveva adottato un atteggiamento prudenziale, affermando che il legislatore europeo, nell’indicare il termine handicap e non malattia, avesse compiuto una scelta consapevole, tesa ad escludere  un’assimilazione pura e semplice delle due nozioni.

In base a questo assunto la Corte aveva concluso  che la malattia non rientrasse nel quadro generale stabilito dalla Direttiva 2000/78 per la lotta contro la discriminazione fondata sull’handicap e, quindi, non potesse essere considerata un motivo da aggiungere a quelli elencati dalla direttiva stessa.

In tale circostanza la Corte aveva parimenti espresso un principio importante, affermando che la Direttiva avesse adottato il termine handicap, senza fornirne una definizione, e senza  rinviare la stessa al diritto degli Stati Membri.

In base quindi al principio dell’applicazione uniforme del diritto comunitario e a quello di uguaglianza, la nozione di handicap deve essere oggetto di un’interpretazione autonoma e uniforme nell’intera Comunità, tenendo conto del contesto della disposizione e delle finalità della normativa di cui trattasi.

Nel 2006, perciò, la Corte aveva interpretato l’articolo 1 della Direttiva, qualificando l’handicap come «le limitazioni che risultano da lesioni fisiche, mentali o psichiche e che ostacolano la partecipazione della persona alla vita professionale», ponendo in rilievo, in un altro punto della decisione, «la lunga durata dello stato limitante da cui è affetta la persona con handicap».

Nella sentenza dell’11 aprile 2013 la Corte sembra spingersi verso un’interpretazione più orientata sulle conseguenze dello stato di salute, affermando che la nozione di handicap ai sensi della Direttiva 2000/78 «include una condizione patologica causata da una malattia diagnosticata come curabile o incurabile, qualora tale malattia comporti una limitazione di lunga durata, risultante in particolare da menomazioni fisiche, mentali o psichiche, che – interagendo con barriere di diversa natura – possa ostacolare la piena ed effettiva partecipazione della persona interessata alla vita professionale su base di uguaglianza con gli altri lavoratori».

La seconda questione affrontata nella pronuncia in commento  concerne, come detto, l’interpretazione delle cosiddette “soluzioni ragionevoli”, che trovano la loro definizione nell’articolo 5 della più volte citata Direttiva 2000/78, ove si dispone che «il datore di lavoro» prenda «i provvedimenti appropriati, in funzione delle esigenze delle situazioni concrete, per consentire ai disabili di accedere ad un lavoro, di svolgerlo o di avere una promozione o perché possano ricevere una formazione, a meno che tali provvedimenti richiedano da parte del datore di lavoro un onere finanziario sproporzionato.

Tale soluzione non è sproporzionata allorché l’onere è compensato in modo sufficiente da misure esistenti nel quadro della politica dello Stato membro a favore dei disabili.

Sulla base di queste considerazioni, alla Corte è stato chiesto se la riduzione dell’orario di lavoro possa annoverarsi tra le “soluzioni ragionevoli”, qualora sia l’unica possibilità che consentirebbe alla persona di lavorare.

Su questo punto la Corte di Giustizia Europea ha interpretato la Direttiva 2000/78 in base ai principi contenuti nella Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità, approvata con la Decisione 2010/48/CE del Consiglio del 26 novembre 2009.


Ed è anche sulla base di tali principi che i Giudici di Lussemburgo hanno fornito un’interpretazione ampia del concetto di “soluzione ragionevole”, affermando che esso «deve essere inteso come riferito all’eliminazione delle barriere di diversa natura che ostacolano la piena ed effettiva partecipazione delle persone disabili alla vita professionale su base di uguaglianza con gli altri lavoratori».

Ebbene, i principi espressi nella Direttiva 2000/78 e nella Convenzione ONU fanno riferimento a soluzioni non soltanto materiali, ma anche organizzative, con la conseguenza che anche la riduzione dell’orario di lavoro può costituire uno dei provvedimenti di adattamento. Spetta comunque al Giudice Nazionale di valutare se la misura in discorso rappresenti un onere sproporzionato per il datore di lavoro.


Questa decisione della Corte di Giustizia dell’Unione Europea si segnala per le  ricadute che inevitabilmente coinvolgeranno l’ordinamento italiano, dal momento che i criteri interpretativi indicati dai Giudici Europei in materia di soluzioni ragionevoli, unitamente alle tecniche di tutela previste dal diritto antidiscriminatorio, imporranno un adeguamento nelle modalità di avviamento al lavoro delle persone con disabilità, anche quando ciò avvenga mediante le procedure del collocamento mirato.

Tali procedure, nel dare piena attuazione all’articolo 2 della Legge 68/99, che impone la ricerca del posto adatto per ogni singola persona con disabilità, dovranno consentire l’adozione di misure non solo materiali, ma anche organizzative, fermo restando il rispetto della loro “ragionevolezza”.

Valerio Pollastrini

Alcuni corsi sulla sicurezza sono utili al mantenimento della prestazione prevista per il sostegno del reddito dei lavoratori sospesi dall’attività lavorativa


Il comma n.40 della legge n.92/2012 dispone che  i lavoratori sospesi dall'attività lavorativa e  beneficiari di una prestazione di sostegno del reddito in costanza di rapporto di lavoro,   decadono  dal trattamento  qualora  rifiutino  di  essere  avviati  ad  un  corso  di formazione o di riqualificazione  o  non  lo  frequentino  regolarmente senza un giustificato motivo.

In risposta all’Interpello n.16/2013 il Ministero del lavoro ha fornito i chiarimenti richiesti dalla Confindustria sugli obblighi di formazione in materia di sicurezza sul lavoro ai lavoratori sospesi, beneficiari di una prestazione a sostegno del reddito in costanza del rapporto di lavoro.

In particolare l’istante aveva chiesto se tali obblighi formativi, previsti dall’art. 37 del D.Lgs. n. 81/2008, rientrassero tra quelli indicati dall’art. 4, comma 40, L. n.92/2012, che condizionano la fruizione degli ammortizzatori sociali alla frequentazione di corsi di formazione o di riqualificazione.

Il Ministero ha innanzitutto ricordato il contenuto della normativa di riferimento. L’art. 37 del D.Lgs. n. 81/2008 disciplina l’obbligo di formazione e  addestramento dei lavoratori in materia di salute e sicurezza in relazione ai rischi insiti nello svolgimento di specifiche attività e alle relative procedure di prevenzione e protezione. In particolare il comma 4 prevede che l’obbligo formativo deve avvenire “in occasione:

a) della costituzione del rapporto di lavoro o dell’inizio dell’utilizzazione qualora si tratti di somministrazione di lavoro;

 b) del trasferimento o cambiamento di mansioni;

c) della introduzione di nuove attrezzature di lavoro o di nuove tecnologie, di nuove sostanze e preparati pericolosi prima della costituzione del rapporto di lavoro e deve essere ripetuto in base all’evoluzione o all’insorgenza di nuovi rischi”.

Il comma 12 specifica, inoltre, che l’erogazione della formazione debba avvenire “durante l’orario di lavoro e non può comportare oneri economici a carico dei lavoratori”.

Con la dizione “durante l’orario di lavoro, il legislatore ha inteso precisare che la formazione in materia di salute e sicurezza, essendo finalizzata all’attività lavorativa, non può avvenire al di fuori dell’orario di lavoro per non andare ad intaccare quel “tempo libero” che deve rimanere a disposizione del lavoratore.

Come visto, la formazione sulla sicurezza prevista dal D.Lgs. n. 81/2008 può svolgersi in differenti occasioni, la prima di queste è “alla costituzione del rapporto di lavoro” dovendo intendersi  anteriormente o, se ciò non risulta possibile, contestualmente all’assunzione” e ciò affinché lo stesso sia consapevole dei rischi insiti nella propria attività e sia in grado di svolgere la propria prestazione “in sicurezza”.

Il Ministero, a proposito della formazione contemplata dalla L. n. 92/2012 , ne ricorda il diverso scopo, rispetto all’attività formativa in materia di sicurezza, e cioè quello relativo al mantenimento/incremento della capacità professionale del lavoratore in relazione o al lavoro dal quale risulta momentaneamente sospeso o alla nuova attività alla quale accederà in virtù della riqualificazione lavorativa.

Da questo punto di vista appare evidente come la formazione oggetto delle due discipline normative in questione sia differente e ciò giustifica anche il diverso momento nel quale risulta logico elargirla.

Il Ministero precisa, tuttavia, che alla formazione sulla sicurezza svolta una tantum prima “della costituzione del rapporto di lavoro”, si devono aggiungere la formazione in costanza di rapporto di lavoro  e l’aggiornamento quinquennale previsto  dall’art. 37, comma 2, del D.Lgs. n. 81/2008.

Questi ultimi sono  corsi di aggiornamento, della durata minima di sei ore, su “significative evoluzioni e innovazioni, applicazioni pratiche e/o approfondimenti che potranno riguardare: approfondimenti giuridico-normativi; aggiornamenti tecnici sui rischi ai quali sono esposti i lavoratori; aggiornamenti su organizzazione e gestione della sicurezza in azienda; fonti di rischio e relative misure di prevenzione”.

Ciò premesso è possibile concludere che nella formazione indicata dalla L. n.92/2012
possano farsi rientrare i soli corsi di aggiornamento e formazione erogati nel corso del rapporto di lavoro, funzionali al reinserimento lavorativo e alla salvaguardia dei livelli occupazionali.

In tal senso, i corsi di formazione finalizzati al trasferimento o cambiamento di mansioni o alla introduzione di nuove attrezzature o di nuove tecnologie, di nuove sostanze e preparati pericolosi, previsti dall’articolo 37 comma 4, lett. b) e c) del D.Lgs. 81/2008, o i corsi di aggiornamento quinquennali, previsti dal citato accordo del 21 dicembre 2011, a cui rinvia l’art. 37, comma 2, del D.Lgs. n. 81/2008, appaiono come una sorta di “completamento” della formazione e/o riqualificazione prevista dalla L.n. 92/2012.

In risposta allo specifico Interpello, il Ministero conferma che, sia i corsi di formazione finalizzati al trasferimento o cambiamento di mansioni o all’ introduzione di nuove attrezzature o di nuove tecnologie, di nuove sostanze e preparati pericolosi, previsti dall’articolo 37 comma 4, lett. b) e c) del D.Lgs. 81/2008, sia i corsi di aggiornamento quinquennali previsti dall’accordo del 21 dicembre 2011 ma non i corsi relativi alla formazione di cui all’articolo 37 comma 4, lett. a), possono essere effettuati nell’ambito della formazione di cui all’art. 4, comma 40, L. n. 92/2012.

Valerio Pollastrini

La bassa statura non può precludere la qualifica di capo-treno


Ogni normativa che, nei concorsi per l'assunzione, stabilisca una limitazione di natura fisica per l'accesso alla selezione deve rispondere ad un criterio di ragionevolezza, sia per i concorsi pubblici, stante i principi costituzionali di non discriminazione per diversità fisiche e di imparzialità della pubblica amministrazione, sia nel settore privato, in cui i criteri di selezione devono rispondere ai principi di correttezza e buona fede.

Questo, in sostanza, il principio applicato nella sentenza n.25734 del 15 novembre 2013 con la quale la Corte di Cassazione  ha sancito il diritto di una lavoratrice a svolgere le mansioni di capo-treno, nonostante fosse stata ritenuta inadeguata a causa della sua bassa statura.

Il caso in questione è quello che ha riguardato una donna che, dopo aver superato positivamente la selezione per essere assunta con le mansioni di capo-treno, era stata successivamente giudicata inidonea da Trenitalia perché di statura inferiore ad un metro e sessanta.

Ribaltando il verdetto del Tribunale, la Corte di Appello di Roma, oltre a riconoscere il diritto della donna ad essere  assunta nelle mansioni sopra indicate, aveva stabilito in suo favore un risarcimento economico per il danno subito.

La Corte territoriale aveva motivato la propria decisione in base all’assunto che la normativa applicata da Trenitalia, nel disporre un requisito di statura minima unico ed indifferenziato per uomini e donne, violasse  gli articoli 3 e 37 della Costituzione, realizzando una discriminazione indiretta ai danni dei candidati di sesso femminile.

La Corte di Cassazione, investita della questione, ha confermato quanto disposto nella sentenza di Appello, condividendo il percorso motivazionale seguito dalla Corte di merito.

Valerio Pollastrini